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Intervista a Tanya Stephens

Data di trasmissione
Durata 1h 9m 31s

 

nella puntata di lunedì 5 marzo 2007:

 
Intervista a Tanya Stephens
Venezia, 17 febbraio 2007
 
Parlaci del tuo nuovo album: Rebelution (VP 2006). Mi piace molto il testo del brano Do you still care, anche perché è la prima volta che un’artista giamaicana parla così esplicitamente dell’omofobia, paragonandola ad ogni altra forma di razzismo… Puoi spiegare al pubblico italiano perché hai scritto questa canzone?
 
«Sentivo il bisogno di scrivere una canzone sull’argomento, perché sono giamaicana, e… sfortunatamente, qualunque artista giamaicano si ritrova cucito addosso lo stigma che è stato creato dagli artisti giamaicani stessi. E visto che questi artisti, per affermare se stessi, finiscono per creare un’immagine negativa di ognuno di noi, ho sentito il bisogno di spiegare che loro non rappresentano tutta la Giamaica. Non sono d’accordo con nessun punto di vista che possa essere in qualche modo offensivo o dispregiativo nei confronti di qualsiasi gruppo di persone, e non ho bisogno di avere qualcosa in comune con un singolo gruppo, per poter imparare a rispettare coloro che ne fanno parte e tutte le loro differenze. Questo è il principio in base al quale io vivo la mia vita e suggerisco ad ognuna/o di vivere la propria. Perciò dovevo scrivere questa canzone, anche perché fa parte della mia vita e del mio lavoro: quello che dico fa parte del mio impegno per cambiare il sistema in cui viviamo. Ed è un lavoro duro quello di mostrare la strada con le nostre parole, ma ci sono tante cose che possiamo cambiare. Ci vogliono troppe energie per far cambiare a qualcuna/o le proprie scelte personali [le preferenze sessuali], ed è solo una perdita di tempo. Sono altre le cose per cui vale la pena di lottare, e io dovevo raccontare questa cosa, perché avevo davvero qualcosa da dire».
 
Che tipo di reazione ha avuto il pubblico quando hai cantato questa canzone in Giamaica?
 
«Ho avuto sempre reazioni positive. Ad un certo punto mi sembrava davvero di aver colpito i cuori della gente. Perché la verità è che nel mondo la gente si è fatta davvero un’idea sbagliata della Giamaica, che è terrificante: pensano che la Giamaica sia un paese omofobo, pensano che in Giamaica la gente sia tutta violenta e aggressiva, senza nessuna ragione, ma non è così. Sì, è vero, c’è la criminalità in Giamaica, ma c’è ovunque nel mondo. Sì, c’è la violenza in Giamaica, ma questo non vuol dire che non ci sia niente di positivo. Il popolo giamaicano è composto da gente di tutti i tipi: c’è una comunità gay molto numerosa, c’è gente di ogni razza, di ogni cultura, di ogni nazione, di ogni religione o credenza. Ci sono così tante persone diverse che vivono in Giamaica, e che vivono in pace, e la criminalità è relativamente poca. Io vivo in campagna e non ho mai assistito ad un crimine. So che esiste, e sento il dovere di essere consapevole di tutto ciò che mi succede intorno, perché parlandone posso cercare di essere d’aiuto, ma non ho mai assistito a un crimine e non sono mai stata vittima di un crimine. Io sento di dover parlare di quello che succede in Giamaica, ma Tanya Stephens non rappresenta tutti i giamaicani, così come quei ragazzi [i cantanti omofobi] non rappresentano tutti noi. La comunità gay è molto numerosa in Giamaica. Molti dei miei amici sono gay, ma io non me ne faccio un problema: non mi ero nemmeno accorta che lo fossero, fino a che la questione non è esplosa sui media. Non scelgo i miei amici in base alle loro preferenze sessuali – è casuale e non mi riguarda – e non considero le scelte sessuali come una questione di cui discutere: perché ci sono molte cose più importanti per cui lottare. Ma lasciami dire una cosa: la Giamaica non è come la rappresentano».
 
Sì, ma qui in Italia, noi che amiamo la musica reggae abbiamo un problema…
La nostra realtà è molto diversa da quella giamaicana: noi ad esempio, abbiamo un sound system autocostruito, che è nato proprio per dare voce a chi in questa società è stata/o sempre ridotta/o al silenzio. E abbiamo scelto il reggae proprio per la sua carica rivoluzionaria e per il suo messaggio politico. Perciò per noi c’è una profonda contraddizione, nel vedere che questa musica viene usata per diffondere messaggi di odio e di discriminazione verso qualsiasi forma di diversità…

 
«Io ho lo stesso problema che avete voi. Davvero. Quando ho cominciato ad appassionarmi alla musica, ero un’adolescente. Ho lasciato le scuole dopo le superiori, e la musica era il mio modo di ribellarmi. La mia famiglia mi diceva: vai all’università, trovati un lavoro fisso, vivi una vita normale… Ma io non sono mai stata “normale”. E il reggae era il modo più semplice per ribellarmi contro tutto questo e per dire: io sono qualcosa di diverso da come mi volete voi, vi chiedo solo di lasciarmi essere me stessa. Ed è così che ho cominciato a fare musica: andavo in giro con gli amici, stavamo all’angolo della strada a fumare erba… Ma con questo non voglio suggerire che questa fosse la cosa giusta da fare: dico solo che questo era il mio modo di ribellarmi alle loro imposizioni. Stavo solo cercando un modo per esprimere quello che sono, e l’ho trovato nel microfono. Certo all’inizio c’era anche una certa superficialità nel mio approccio con la musica, mentre adesso che sono cresciuta vedo meglio il lato più vero del reggae. Perciò è triste, ed è molto doloroso per me, sentire persone di altri paesi, che non conoscono la vera storia del reggae, che non conoscono tutti gli artisti che lavorano nell’industria del reggae, eppure ci descrivono come qualcosa di orribile. È triste, perché c’è tanta gente meravigliosa nell’industria del reggae, e invece c’è solo un gruppo molto piccolo, che ha creato quest’immagine [quello degli artisti omofobi]. Perciò provo la stessa delusione che provate voi. Quando vado da qualche parte e mi tocca difendere il reggae, per me è davvero doloroso, perché so che il reggae non si può ridurre all’immagine creata dagli artisti omofobici. Il reggae non è questo: è qualcosa che unisce la gente, è – come hai detto tu – un mezzo per dare voce a coloro che non hanno mai avuto voce. È il modo più facile per esprimersi. È uno dei pochi generi musicali rimasti al mondo che è ancora capace di parlare per coloro che soffrono. Perciò è un ottimo strumento da utilizzare, e il fatto che venga corrotto in questo modo è triste per tutte/i, inclusa me stessa».
 
A che età hai cominciato a cantare?
 
«Intorno ai sedici… diciassette anni. Ero molto giovane».
 
E come hai cominciato? è diventata subito una vera “professione”, oppure cantavi in chiesa o a scuola?
 
«Nooooo… [ridendo] lasciatemelo dire… io rispetto tutte/i ma non sono religiosa. Io andavo alla dancehall, quella era la mia chiesa!
All’inizio era puro divertimento. E quello è il periodo della mia carriera musicale che amo di più: quando andavo alla dancehall, prendevo il microfono per cantare, e non sapevo nemmeno come avrei fatto per tornare a casa.
Ma era così avventuroso, sai. Era davvero puro. E non ero toccata dal business e da cose del genere, che corrompono la musica e limitano la creatività. Era così… un hobby… solo per divertirmi».
 
Con quale sound system hai cominciato a suonare?
 
«Questa è una domanda difficile, perché la maggior parte dei sound system su cui ho cantato agli inizi sono sconosciuti, sono piccoli sound locali, della regione in cui sono nata, S. Mary. Dovunque sentivo che c’era un sound system che suonava, io andavo là e prendevo in mano il microfono. Ma ad un certo punto sono arrivati i sound system più grandi, a chiedermi di suonare con loro, come Kilimajaro. Suonavo con tutti i sound che erano popolari tra la fine degli anni ottanta e gli inizi degli anni novanta. Dovunque sapevo che c’era una discoteca all’angolo della strada, o un sound system che suonava, io prendevo l’autobus e andavo a sentirlo. E se sentivo una buona vibrazione, andavo là e gli chiedevo: hey, posso prendere il microfono? E così ho incontrato un sacco di gente».
 
E con quale sound system preferisci suonare? qual è il tuo preferito?
 
«Questa è una domanda difficile… In realtà non ho un sound system preferito, ma sono molto amica di Kilimanjaro: è davvero una bella persona e ho sempre fatto delle belle chiacchierate con lui, fin da quando ero un’adolescente, e ci parlo bene ancora oggi. Lui è davvero una persona intelligente: è una delle poche persone nella scena della dancehall che sono dotate di buon senso! Perciò con lui è facile fare una conversazione di un certo livello. È una persona vera, per questo mi piace parlare con lui. Perciò forse ho sbagliato a dire che Kilimanjaro è il mio sound preferito: è che mi piace come persona. Ma ascolto tutti i sound system, Exodus, Stone Love, tutti i sound. Certo, non voglio di mancare di rispetto a nessun sound, ma se mi chiedi con quale ho il feeling migliore, di sicuro è Kilimanjaro».
 
C’è un artista con il/la quale ti piacerebbe cantare insieme?
 
«No, non c’è nessun cantante in particolare con cui mi piacerebbe collaborare. Il mio approccio con gli artisti con cui collaboro è basato sul messaggio che vogliamo esprimere: devo trovare qualcuna/o che la pensi come me su un determinato argomento, piuttosto che cercare un grosso nome da mettere sul disco per promuoverlo, ma poi magari viene fuori qualcosa di falso… Preferisco cercare qualcuna/o con cui ho qualcosa in comune, e che può migliorare la canzone, piuttosto che cercare una celebrità per vendere meglio il disco. Non sono proprio quel tipo di artista…»
 
C’è un’altra canzone molto interessante nel nuovo disco, Warn dem, in cui denunci la fame e la violenza che affliggono la società giamaicana, assieme all’incapacità dei politici, che pensano solo ad intraprendere nuove guerre, mentre tu affermi invece la necessità di disarmare i giovani offrendo loro delle opportunità…
 
«Warn dem fondamentalmente è l’espressione di un altro dei principi filosofici in base ai quale io vivo, e cioè che noi tutt@ contribuiamo a costruire l’ambiente sociale in cui viviamo. Ognuna/o di noi contribuisce, anche se non fa nulla, perché se tu fai qualcosa puoi contribuire a fermare qualcos’altro che sta succedendo. Ognuna/o di noi contribuisce in qualche modo. E io volevo solo dire esplicitamente a tutte/i: facciamo qualcosa insieme, vi avverto, perché anche se voi non volete affrontare il problema, comunque il problema coinvolgerà anche voi. Se c’è un problema, non è mai colpa di una singola persona, tutt@ siamo responsabili, me compresa. Io vivo lì, perciò devo contribuire a risolvere i problemi, come ogni altra singola persona. Perciò dico solo: dai, cerchiamo di affrontare insieme i problemi».
 
Ma allora qual è, secondo te, la soluzione ai problemi della Giamaica?
 
«Non c’è mai una sola soluzione per così tanti problemi. Ma io credo che il primo problema da affrontare sia l’analfabetismo, che è una piaga nel nostro paese. Io credo che se noi cominciassimo dall’istruzione dei nostri bambini, risolveremmo già un problema annoso. Poi è chiaro che dovremmo fare un piano a lungo termine, perché non ci sono soluzioni immediate per i problemi che ci affliggono. Nell’ambito educativo, dovremmo cominciare dai più giovani. Nell’ambito sociale, dovremo cominciare ad insegnare alla gente ad accettare e a rispettare le altre persone e il loro spazio. E dovremmo cominciare ad insegnare l’armonia e l’amore… Negli anni settanta era una cosa grande, con gli hippy che parlavano di pace e amore, ma ora sembra che sia tutto finito, superato, mentre invece dovremmo tornare a insegnare semplicemente alla gente ad amarsi e a rispettarsi l’un l’altra/o. Perché se ami una persona non le fai del male, e rispetti il suo spazio. È una cosa molto semplice, ma funzionerà. E io sento che dovremmo cominciare dai giovani, perché gli adulti… sono cause perse! Non si può fare niente con loro. Ma se cominciamo dai bambini, dalle scuole, dai genitori, insegnando loro dei nuovi modi… abbiamo solo bisogno di cambiare la nostra cultura: la cultura è lo stile di vita della gente, non è qualcosa di fissato una volta per tutte, ma è il modo in cui vivi. Perciò, in qualsiasi modo vivi, quella è la tua cultura, non c’è bisogno che rimanga per sempre la stessa cultura della tua bisnonna. Anche perché lei viveva in un’altra epoca, quindi tu non devi fare le stesse cose. Perciò abbiamo bisogno di cambiare tutte quelle cose che non funzionano, senza problemi. Io stessa mi sono re-inventata diverse volte, e non ho rimpianti per questo. Amo quello che ho fatto quando ero un’adolescente, ma so di non esserlo più: adesso ho 33 anni, e so di non poter vivere più in quel modo, devo trovare una nuova me stessa da adulta… E io credo che con la società dobbiamo comportarci allo stesso modo, se vogliamo risolvere i nostri problemi».