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Intervista a David Hilliard (seconda parte)

Data di trasmissione

nella puntata di lunedì 21 aprile 2008:
 
Seconda parte dell’intervista a David Hilliard*
membro fondatore ed ex-Capo di Stato Maggiore del Black Panther Party
Roma, 11 aprile 2008
 
La settimana scorsa abbiamo parlato di Obama, e tu dicevi che la novità non sta nel candidato, ma nel movimento che lo sostiene: in questa rinascita di consapevolezza e di interesse per la politica da parte dei giovani. Come si esprimono le loro voci? ci sono delle novità anche nei loro linguaggi e nei loro atteggiamenti?
 
Loro cercano di utilizzare il processo politico per ottenere un cambiamento sociale. Ad esempio, l’America ha speso milioni di dollari in questa guerra, e i giovani che sostengono Obama sperano che grazie a lui si riesca a porre fine alle ostilità in Iraq, in Afghanistan, in Africa, in Somalia. E allora questi milioni di dollari potrebbero essere investiti nella politica interna: ad esempio per costruire nuove scuole, per creare occupazione e per l’assistenza sanitaria. È questo il motivo di tanto entusiasmo da parte della gente: la possibilità di una ridistribuzione delle risorse economiche in programmi per le comunità, per la politica interna; e anche la possibilità di risanare le ostilità su cui si basano le relazioni degli Stati Uniti con le altre comunità negli altri paesi del mondo. Per questo c’è tanto lavoro da fare, e ci vorrà del tempo, se Obama vince. Così funziona il processo per trasformare il sistema politico, ma serve del tempo per ottenere un cambiamento, e dobbiamo essere consapevoli che il cambiamento politico deve provenire dall’interno del sistema, non dall’esterno. Le manifestazioni servono per attirare l’attenzione sui problemi, ma poi bisogna lavorare dall’interno per modificare le condizioni contro cui si sta manifestando. La speranza è che le persone coinvolte oggi nel processo politico in America, saranno capaci di gestire il sistema in maniera diversa da come i politici hanno fatto finora. E se non dovesse funzionare, allora queste persone avranno il potere di rovesciare il sistema: facendo nuove manifestazioni e costruendo nuovi movimenti, come negli anni sessanta. La differenza è che ora ci sono dei movimenti che sono attivi da dieci anni, non è solo da un anno. Non è come negli anni sessanta, in cui facevi una manifestazione davanti al carcere e poi tornavi a casa e aspettavi un anno prima della prossima manifestazione. No, adesso ci sono movimenti che lavorano da cinque anni, da dieci anni, per ottenere un cambiamento sociale. Movimenti che lavorano sulle questioni ambientali, contro il sistema carcerario, per l’istruzione, per l’occupazione, e che continueranno a farlo per i prossimi dieci anni. E se riusciranno ad ottenere un cambiamento sociale non sarà solo per l’America, ma per il mondo intero.
 
Sono rimasta colpita da una frase che hai detto durante il dibattito alla Factory occupata. Parlando della repressione attuata dal governo negli anni sessanta e settanta per distruggere ogni forma di resistenza critica, hai affermato che oggi negli Stati Uniti non esiste un vero movimento, e che l’unico vero movimento è il movimento hip hop. Dicevi sul serio o era solo una provocazione?
 
No, è la realtà. Ci sono questi gruppi frammentati di cui ti parlavo prima: ad esempio ci sono gruppi che lavorano per cercare di ottenere una riforma del sistema carcerario, ma non sono un movimento di massa, non sono un vero movimento. Sono singoli gruppi che lavorano su una questione particolare e sono limitati geograficamente. C’è un solo movimento in America, che non è limitato all’America ma influenza tutto il mondo – in Brasile, in Italia, a Cuba, in Germania, in Svizzera, nel Regno Unito – e si chiama hip hop. Perciò, senza dubbio, questo è un movimento, anche se è un movimento reazionario. Ma forse i giovani diventeranno più consapevoli, e useranno questo fenomeno culturale come un mezzo per ottenere il controllo e per cominciare a educare altri giovani, piuttosto che per vendere dischi, per convincere la gente a comprarsi le nike, a portare il cappello rivolto all’indietro oppure ad usare certe espressioni idiomatiche. Perciò penso che ci sia qualcosa di positivo che può emergere dal movimento hip hop. Come in ogni cosa, ci sono aspetti positivi e negativi. Perciò, credo che la gente che vuole organizzarsi in un movimento, dovrebbe provare a individuare le contraddizioni positive che ci sono nel movimento hip hop, e prenderne il controllo. Perché guardandomi intorno, anche qui in Italia, ho visto tanti ragazzi che sembrano uguali ai ragazzi di New York, perché anche loro guardano MTV. Perciò forse il movimento hip hop potrebbe contribuire a costruire dei movimenti progressisti. Ma di sicuro questo è un movimento globale, che è nato in America e che ora controlla il mondo intero.
 
Credi che la musica hip hop abbia contribuito a mantenere viva l’eredità politica e culturale del Partito della Pantera Nera?
 
Sì, questo è vero per alcuni artisti. Ad esempio Common è un artista consapevole, ha fatto qualcosa di consapevole. Anche Chuck D e i Public Enemy, alle origini, erano l’espressione musicale del nostro Partito della Pantera Nera e della sua militanza. Ci sono persone come i Fugees, con Lauryn Hill e Wyclef Jean. C’è anche Nas, che io considero un rapper consapevole. E prima di loro, agli inizi, c’erano persone come gli Afrika Bambaataa o KRS One, che avevano introdotto degli elementi di consapevolezza nell’hip hop delle origini. Insomma ci sono delle espressioni di consapevolezza che riconosco nel movimento hip hop. E poi ovviamente io ho usato l’hip hop come un veicolo per far conoscere la nostra storia, creando un nostro gruppo rap che si chiama The Black Panther Fugitives, con cui abbiamo fatto due cd. Nel gruppo ci sono i figli di due membri del Partito della Pantera Nera e c’è anche mio figlio, che rappresenta un po’ la continuazione dell’eredità delle Pantere. Perciò usiamo questo gruppo come un mezzo per continuare a raccontare la nostra storia, come una nuova fonte di idee. E usiamo questo veicolo per infondere nuove idee nella gente, così che non vadano in giro solo dicendo cose come «shake your booty» e «bling bling» e roba del genere. Forniamo loro un nuovo vocabolario, nuove parole e nuove espressioni che possono contribuire al loro empowerment. Ecco come usiamo questo mezzo espressivo.
 
Parliamo anche delle contraddizioni interne che caratterizzano questo genere musicale. Ad esempio, Radio Onda Rossa ha contribuito fin dalle origini alla diffusione del rap e del reggae in Italia. Abbiamo sempre suonato molta musica black, ma abbiamo deciso di fare una scelta: ad esempio ci rifiutiamo di suonare e promuovere questa musica quando esprime macismo, sessismo e omofobia. E non accettiamo che la storia della schiavitù e del razzismo venga utilizzata come una giustificazione per questi atteggiamenti. Tu che ne pensi?
 
Certo, è questo il nostro ruolo, il nostro compito: dobbiamo criticarli. Il ruolo dei movimenti progressisti è di criticare ciò che è controproducente e reazionario, e di chiamarlo col proprio nome. Dobbiamo usare questo mezzo per contrastare la cultura e le liriche omofobe. Ogni volta che troviamo delle espressioni negative nell’arte – come in questo caso – dobbiamo trovare il modo di contrastarle, di far sapere alla gente esattamente che cosa sta succedendo ed educare la gente rispetto alla necessità di un messaggio che unisca la gente, piuttosto che un messaggio che la divida e la opprima. E questo riguarda il mezzo espressivo dell’hip hop nel suo complesso: è assolutamente inutile quando promuove solo sesso e materialismo. Questo è ciò che la gente sembra voler comprare. Sono molto critico verso questa generazione di giovani tra i 18 e i 25 anni. Perché comprano questa spazzatura? Perché continuano a sostenerla? Alcuni dicono: non ci interessa il messaggio, ci piace la musica. Vergogna! Perché le liriche sono molto ma molto pericolose. Forse i portafogli dei rappers dovrebbero essere meno pieni, e dovrebbero cominciare ad usare dei buoni ritmi, accanto a dei messaggi migliori. Perché a volte scelgono dei ritmi davvero noiosi, quando fanno delle rime politiche. Va bene far ballare i giovani, ma facciamoli ballare con una musica che contribuisce a liberarli. Non con una musica che continua a opprimerli, che riproduce l’oppressione di genere, il sessismo e l’omofobia che vengono perpetuati attraverso questo mezzo espressivo chiamato hip hop.
 
Un’altra contraddizione secondo me è rappresentata dalla commercializzazione e dalla mercificazione: un rapper può essere il portavoce della comunità, oppure può usare la musica solo per costruire una carriera individuale. Secondo te come possiamo fare a usare la musica come uno strumento per accrescere la consapevolezza e per contribuire a un progresso collettivo?
 
Prima di tutto possiamo cominciare creando i nostri artisti e la nostra cultura; poi possiamo cominciare a fare le nostre produzioni, i nostri programmi radiofonici; e infine possiamo cominciare a educare la gente a non sostenere le tendenze reazionarie di questa industria musicale. Questo è l’unico modo per rovesciare questo sistema: che la gente smetta di sostenerlo. La gente può scegliere: non deve sostenerlo. I ragazzini di 13-14 anni, che sono interessati solo alle cose materiali, guardano le immagini che mostrano macchine costose e belle ragazze, e si dimenticano che è solo un video, che non c’è nulla di reale: che i cantanti non possiedono davvero quelle macchine, che è solo uno spot pubblicitario fatto per vendere più dischi. Perciò dobbiamo educare i giovani a comprendere cosa è meglio per loro, perché ovviamente sono influenzati da tutto questo materialismo e non si interessano all’ideologia, ai contenuti. Perciò l’unico modo è sostenere gli artisti che sono dei compagni e che sono più consapevoli. Perché la maggioranza degli artisti ha un contratto con una casa discografica, il che significa che non sono liberi di fare quello che vogliono fare: devono fare quello che la casa discografica impone loro (e questo è un errore comune che la gente commette). Anche quando si chiamano Common o Erykah Badu, se lavorano per la Sony, che è una multinazionale, non sono liberi di fare quello che vogliono, almeno finché saranno sotto contratto con quell’etichetta. Perciò noi vogliamo qualcuno che sia indipendente, che sia libero di raccontarci storie che servano a stimolare la gente, a educarla, e non qualcuno che sia coinvolto in quella roba inutile e superficiale promossa dall’industria musicale. Perché l’industria musicale serve solo a perpetuare il capitalismo, non certo a promuovere il cambiamento sociale. Nell’hip hop ci sono diverse categorie: il pop, l’underground, il rhythm & blues; e questo vale anche per i conscious rappers, nei negozi di dischi c’è una categoria specifica anche per loro. Ma i soldi vanno sempre alla stessa casa discografica. Quindi sono tutti schiavi dei contratti discografici che hanno firmato, non sono davvero padroni di sé stessi, e su questo bisogna essere chiari. Perciò, se tu mi chiedi come possiamo usare questi artisti, ti risponderò che forse non dobbiamo usare gli artisti che sono di proprietà delle case discografiche, perché le case discografiche impongono loro quello che devono fare. Siamo noi che dobbiamo creare i nostri artisti e avere i nostri circuiti di distribuzione. Questo significherebbe essere davvero indipendenti. La Black Panther Party Records è davvero indipendente, non abbiamo mai avuto una casa discografica per distribuire i nostri cd, anche se ci ho provato, ma loro dicono che «no… questa roba della Black Panther Party Records non funziona». Intendono dire che noi non parleremo della lotta "del culo", ma della lotta di classe. Invece di dire "muovi il culo", noi diciamo alla gente di leggere, e di come lottare per ottenere il potere. Per questo non ci offriranno mai un contratto: perché non ci atteniamo alle loro regole, non rientriamo nella loro formula. Ascoltare la musica in America è molto interessante: una sola compagnia controlla 130 stazioni radiofoniche. Perciò, se ascolto la radio a New York, e poi vado in California, a cinque ore di volo, ascolterò la stessa musica che potevo ascoltare a New York, perché loro controllano quella che viene chiamata la rotazione musicale. È così che funziona in America: non c’è possibilità di scelta, ascolti sempre la stessa musica, indipendentemente da dove ti trovi. Perciò noi dobbiamo creare dei nuovi linguaggi musicali.
 
Insomma direi che la tua filosofia in questo senso coincide con quello che noi chiamiamo autoproduzione… So che tu usi la musica hip hop anche nei tuoi corsi universitari sulla storia delle Pantere Nere. Ma la cosa che mi ha colpito di più è che pur non essendoti mai laureato, tu insegni regolarmente nelle università degli Stati Uniti. Parlami di questa esperienza: in fondo sei sempre stato allo stesso tempo un attivista e un osservatore, perché insegni quello che hai imparato dalla tua esperienza personale.
 
Sì, io ho sempre agito in prima persona, perciò mi considero un esperto in quello che insegno. Non ho alcun titolo universitario, ma ho 40 anni di esperienza nella storia delle lotte in America, ed è questo quello che insegno. Perciò sono un esperto in questo. Quando mi invitano a sedere accanto a degli accademici, per parlare della storia delle Pantere Nere, io spiego alla gente che un accademico è solo un accademico, che non è un attivista, e che non ha una vera conoscenza di ciò di cui sta parlando: la verità è quella della gente che ha fatto la storia. Perciò io ho le basi, ho il ruolo e ho l’opportunità di diffondere la nostra storia nelle aule universitarie. E io credo che per me quello sia il luogo appropriato in cui stare, dopo questi quaranta anni. Raggiungere queste giovani menti e insegnare a questi giovani delle università la verità sull’America e la verità sul nostro movimento: non c’è posto migliore in cui stare. Perché mi trovo in un ambiente in cui ci sono delle giovani menti che vogliono imparare quello che è successo e che hanno delle nuove idee. Come Partito della Pantera Nera, noi abbiamo un nostro metodo di insegnamento: noi diciamo che insegniamo alla gente «come pensare», e non «cosa pensare». Perché la maggioranza degli studenti ragionano in maniera completamente meccanica: non conoscono la sfida, non sanno pensare in maniera dialettica. Perciò noi gli insegniamo come decostruire: come ascoltare e poi arrivare da soli alle conclusioni. Gli forniamo una struttura, un metodo e un’ideologia per realizzare il cambiamento. Per questo a volte io divento una minaccia per il sistema: quando si rendono conto di che cosa sto insegnando, ricominciano a chiedermi delle credenziali, e dicono che non ci sono più fondi per un altro anno di corso. Ma il motivo reale è che gli studenti cominciano a impegnarsi, sanno come organizzarsi, sono motivati, e questo è davvero pericoloso. Perché io continuo a usare oggi il metodo che il Partito della Pantera Nera usava per creare il suo movimento, e lo faccio in qualsiasi luogo mi trovi. Non ho mai abbandonato la nostra agenda e il nostro entusiasmo per la possibilità di realizzare il cambiamento sociale. Sono sempre stato coerente, tenace e perseverante, e non ho mai rinunciato. Ho cercato dei nuovi metodi per comunicare le mie conoscenze, ed è questo che ho fatto negli ultimi anni, andando nelle scuole e nelle università, pubblicando libri, costruendo relazioni con il movimento hip hop: ho creato la casa discografica, ho usato l’hip hop come mezzo espressivo. Cerco sempre nuove modalità per comunicare quello che ho imparato alle generazioni di oggi.
 
So che stai lavorando per aprire una sede europea della Fondazione Huey P. Newton. Parlami di questo progetto.
 
Sono molto entusiasta di quello che sta succedendo durante questo viaggio in Italia, grazie a Pasquale e al centro sociale Zona Bandita di Venezia. È grazie a loro che sono qui, e spero che non sia solo per questi pochi giorni, perché stiamo tentando di costruire una collaborazione più duratura. Sto cercando, ancora una volta, di insegnare alla gente come lavorare per realizzare un cambiamento sociale. Ma per essere più efficaci, abbiamo bisogno di avere una presenza costante in Italia, che non si limiti alla settimana in cui io sono qui, ma che ci permetta di costruire delle connessioni con gli studenti e con i movimenti che lottano anche qui per realizzare un cambiamento sociale. Perciò sono molto entusiasta all’idea di avere un ramo della Fondazione nella comunità italiana. L’Italia sembra così lontana, ma in realtà oggi nel mondo siamo tutti interconnessi. Perciò è utile fondare una sede locale in Italia e in qualsiasi altra parte del mondo, per lavorare insieme sulla base di un’agenda comune E questo sarebbe un esempio meraviglioso di come i giovani in Europa cercano di lavorare insieme ai movimenti progressisti in America, non solo a livello teorico – magari leggendo i libri – ma con una presenza reale nelle comunità. Perché siamo tutti e tutte parte della stessa lotta. Perciò credo che questa sia un’ottima idea e tornerò ancora qui per condividere le nostre esperienze con i movimenti che lottano in Italia.