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Attica Blues

Oltre la Black Music: l'arte, le lotte, la storia e l'eredità culturale della schiavitù e della diaspora nera nel mondo.

In onda ogni giovedì in diretta dalle 16 alle 17.

Tune In

Intervista a David Hilliard (prima parte)

Data di trasmissione

nella puntata di lunedì 14 aprile 2008:
 
Prima parte dell’intervista a David Hilliard*
membro fondatore ed ex-Capo di Stato Maggiore del Black Panther Party
Roma, 11 aprile 2008
 
Parlami di come è nato il Partito della Pantera Nera e di come è iniziato il tuo coinvolgimento personale.
 
Ero molto giovane quando sono entrato nel Partito della Pantera Nera. Ero appena ventenne nel 1966, quando il partito è stato fondato. Solo un anno prima, c’erano state numerose rivolte in America. La rivolta di Watts, del 1965, era la più nota tra quelle che avevano coinvolto la comunità nera: 47 persone erano state ammazzate e migliaia erano rimaste ferite per le strade di Watts. Nello stesso anno era stato assassinato Malcom X. Perciò c’era molta rabbia diffusa tra i giovani e nelle organizzazioni in America, quando cominciarono le rivolte, agli inizi degli anni sessanta. E nel 1966 fu fondato il Partito della Pantera Nera. Ma tra il 1966 e il 1968 c’erano state rivolte nelle città quasi ogni mese: effettivamente nel 1968 in America c’erano state 168 rivolte nel giro di sei mesi. E giustamente il 1968 è stato definito come l’anno della rivoluzione globale. Non solo in America, ma in tutto il mondo gli studenti si ribellavano: in Italia, nel Regno Unito, a Parigi, a Città del Messico, dove i giovani venivano uccisi dal regime fascista. Dunque il nostro partito nasceva in questi anni in cui il movimento per i diritti civili stava cominciando a esprimersi soprattutto attraverso la gioventù militante, piuttosto che attraverso la voce della gente che aveva marciato al fianco di Martin Luther King sostenendo la nonviolenza come mezzo per ottenere il cambiamento. C’era questo cambiamento in corso nel 1965: la gente affermava "Potere Nero" e reclamava la resistenza, piuttosto che le proteste sociali. E il nostro Partito della Pantera Nera nasceva proprio in seguito all’esperienza del movimento degli anni cinquanta e sessanta.
 
Lo slogan "All power to the people" sintetizza bene la capacità del partito di coinvolgere l’intera comunità, anche chi non era propriamente un militante o un attivista. Come riuscivate ad ottenere questo supporto da parte della gente comune?
 
Portavamo avanti dei programmi particolari, come quello delle colazioni gratuite per i bambini. I compagni si svegliavano tra le cinque e le sei del mattino per preparare il cibo e usavano gli spazi delle chiese per distribuirlo. All’inizio la gente della chiesa veniva lì solo per aprirci le porte. Ma poi, a un certo punto, anche loro cominciavano a partecipare attivamente e ci aiutavano a cucinare e a prenderci cura dei bambini (perché ovviamente era la cosa più giusta da fare per un cristiano). Insomma, noi davamo inizio al programma, ma poi la gestione del programma veniva affidata alla comunità. Noi cominciavamo un programma – come quello delle colazioni gratuite – ma poi i lavoratori della comunità venivano coinvolti personalmente nelle nostre attività. Perciò c’erano sempre i compagni delle pantere e i lavoratori della comunità, che lavoravano fianco a fianco nello stesso progetto. Col tempo il Partito della Pantera ha abbandonato il programma, e allora la comunità ne ha assunto il controllo. Bene, perché questo era esattamente quello che volevamo che accadesse. Perciò, ogni volta che intraprendevamo un programma – che fosse per l’assistenza sanitaria, per sfamare i bambini o per l’istruzione – noi davamo inizio al programma, ma poi lo lasciavamo nelle mani della comunità. Per questo la comunità era sempre coinvolta nel nostro lavoro.
 
Come è cambiato in questi anni lo spazio urbano delle metropoli statunitensi in cui realizzavate questi programmi sociali di autogestione? Quali sono le contraddizioni, le espressioni creative e le relazioni di potere che si producono nello spazio metropolitano? e quali sono le forme di controllo sociale e gli strumenti di resistenza oggi in atto?

Tante cose sono cambiate dall’epoca in cui era attivo il nostro movimento, negli anni sessanta. Allora lo spazio urbano era abitato da numerosi gruppi che si battevano per il cambiamento sociale, mentre adesso ci sono solo pochi gruppi. La maggioranza dei gruppi attivi oggi si batte per la questione dell’abitare e per il controllo del prezzo degli affitti, perché la gente non può permettersi di pagare l’affitto. Altri si occupano delle questioni ambientali, come il movimento dei verdi, ma non si concentrano solo sullo spazio urbano. E poi nel cuore della metropoli ci sono movimenti come Books not bars (libri e non sbarre), che lottano contro il carcere minorile, perché oggi ci sono tantissimi ragazzi tra i sedici e i diciassette anni rinchiusi nelle carceri minorili. Questi movimenti sostengono invece che sarebbe più utile cercare di istruire i giovani e di farli studiare, piuttosto che rinchiuderli in carcere, dove probabilmente diventeranno ancora più criminali. Ci sono poi organizzazioni che lottano contro quello che noi definiamo "il complesso industriale carcerario". In America ci sono più persone in prigione rispetto a qualsiasi altro paese al mondo. Il 13% della popolazione in America è costituita da afroamericani, ma siamo il 15% della popolazione carceraria. Tra i movimenti attivi nelle metropoli americane oggi, quello contro il sistema carcerario sta cominciando ad emergere come uno dei movimenti più importanti dai tempi in cui è nato il Partito delle Pantere Nere, negli anni sessanta.
 
In questi giorni, rispondendo alle domande dei giornalisti italiani sugli sviluppi del processo a Mumia Abu Jamal, hai ricordato che ci sono altri attivisti neri che sono in carcere da più tempo di lui.
 
Sì, queste persone sono state completamente dimenticate, pur essendo in prigione da così tanto tempo, proprio perché in America non c’è più un movimento attivo. Perciò c’è la necessità di rendere la gente consapevole della situazione di questi prigionieri, non solo in Italia. È necessario cominciare ad organizzare un movimento specifico in America, perché è solo coinvolgendo la gente che potremo riuscire a liberare non solo Mumia, ma tutte le persone che sono considerate dei prigionieri politici. È questo il punto: che ci sono molte altre persone in prigione oltre a Mumia. Mumia è solo una delle persone che sono in carcere come conseguenza del movimento degli anni sessanta, in particolare per aver partecipato al Partito della Pantera Nera. Ma ci sono molte altre persone che sono in prigione, o che ci sono state tanto quanto lui: persone che, come Mumia, sono state nel braccio della morte, e che poi hanno visto al loro sentenza commutata nell’ergastolo. Perciò noi dobbiamo lottare non solo per liberare Mumia dal carcere, ma per mettere fine alla carcerazione di tutti i prigionieri politici.
 
Ma tu credi che l’attenzione internazionale possa avere un peso su questa situazione? c’è qualcosa che possiamo fare anche dall’estero?
 
Io credo che, dovunque viviamo, siamo tutti e tutte coinvolte nella stessa lotta. Perciò sì, credo che dovremmo mantenere viva l’attenzione sulle persone che sono in carcere, specialmente i prigionieri politici, dovunque noi siamo. Sia in Italia che in tutte le altre comunità in Europa, dovremmo fare manifestazioni e campagne informative su come l’America ha rinchiuso in prigione questi giovani, soprattutto afroamericani o di origini ispaniche. E questo avviene perché c’è un monopolio, perché il complesso industriale carcerario genera un’economia: servono 35 mila dollari per mantenere un persona in carcere per un anno. E questi soldi potrebbero essere spesi meglio, ad esempio mandando queste persone a fare l’università in America, così potrebbero ottenere un’istruzione, e non rappresentare un problema per le comunità in cui vivono. Ma non avviene niente del genere, anzi, vengono spesi milioni di dollari per costruire altre carceri. Perciò penso che questo sia un problema che deve essere portato all’attenzione internazionale, per dimostrare quanto sia arcaico il modo in cui l’America tratta i propri cittadini, e quanto il sistema giudiziario sia un totale fallimento.
 
Parlami del ruolo delle donne nell’organizzazione interna del partito. Come venivano gestite le relazioni tra i generi?
 
Viviamo tutte e tutti in una società dominata dal maschile, una società patriarcale, sia in America che in Europa. Nelle nostre società gli uomini sono considerati superiori rispetto alle donne. E questo ovviamente si rispecchiava anche nel nostro movimento: la gente arrivava con questi atteggiamenti che permeano l’intera società, pensando di avere il diritto di controllare le donne, considerando le proprie compagne come una proprietà privata. Ma nel nostro movimento abbiamo sempre cercato di liberarci di questi atteggiamenti e di quest’idea che le donne fossero una proprietà. Nella nostra organizzazione le donne venivano considerate come uguali agli uomini, specialmente nel periodo in cui il Partito della Pantera Nera subiva la repressione delle forze dello stato. Perché le donne venivano picchiate, le donne venivano incarcerate, le donne portavano le pistole e svolgevano gli stessi ruoli che svolgevano gli uomini. Perciò non c’erano disuguaglianze tra donne e uomini, nemmeno quando la repressione divenne più dura. E anche successivamente, le questioni di genere diventavano un problema quando c’era gente che si univa al nostro movimento manifestando questi atteggiamenti e queste idee reazionarie. Perciò abbiamo sempre dovuto lottare per porre fine alla repressione e all’oppressione delle donne. La nostra organizzazione rappresentava un’esperienza innovativa in questo senso: le donne partecipavano alla leadership nel nostro movimento. E questo non era mai avvenuto in nessun altra organizzazione politica dell’epoca in America: né negli S.D.S. [Students for a Democratic Society] , né negli Weathermen , ma solo nel Partito delle Pantere Nere. Elaine Brown è stata alla guida del partito nel momento in cui si stava trasformando in un movimento globale, quando Huey Newton era in esilio. Prima di Elaine Brown c’era stata mia cognata che aveva fondato la prima sede del partito sulla east-coast, in Connecticut, ed era a capo di quella sede. Un’altra sorella chiamata Audrea Jones aveva fondato e diretto la sede di Boston, in Massachussets. Non c’era nessun altro movimento americano in cui le donne avessero raggiunto questi ruoli di comando. In pratica gli S.D.S. e tutti i cosiddetti movimenti progressisti dell’epoca venivano a incontrare il Partito delle Pantere Nere – perché noi tenevamo dei corsi di addestramento politico – e portavano questa questione al centro della discussione. Ci chiedevano come fare per raggiungere l’uguaglianza tra donne e uomini all’interno delle loro organizzazioni, perché noi eravamo più avanzati, e ci chiedevano consigli su come affrontare le questioni di genere, su come eliminare il sessismo dalle loro organizzazioni. Quindi noi rappresentavamo un modello, per gli altri movimenti, su come gestire i ruoli di genere all’interno di un collettivo rivoluzionario. In questo senso eravamo un’avanguardia.
 
In questi giorni di campagna elettorale, le primarie statunitensi destano grande interesse anche qui in Italia. In particolare, l’attenzione dei media si è concentrata sul significato simbolico del testa a testa tra Barack Obama e Hillary Clinton, perché è la prima volta che un afroamericano e una donna hanno la concreta possibilità di diventare presidente degli Stati Uniti. Ma essere neri o essere donna, secondo me, non è sufficiente. Quello che conta è come agisce, che cosa pensa politicamente quel soggetto, che sia un nero o una donna. Ad esempio, Condoleeza Rice è una donna ed è afroamericana, ma di certo il suo ruolo di potere non ha rappresentato un vantaggio per le donne o per gli afroamericani.
 
Hai perfettamente ragione. Ma la differenza tra Barack Obama – che io tendo a considerare come il migliore tra i due candidati – e Hillary Clinton, sta in ciò che Obama rappresenta. Non è solo l’esponente di una minoranza, come poteva essere anche Condoleeza Rice, che era stata designata da George Bush, un vero reazionario, e che ha messo in atto la sua stessa politica. Dobbiamo essere chiari a proposito di Condoleeza Rice: è una donna nera, ma ha messo in atto la politica del partito repubblicano e di George Bush. Quindi c’è una netta differenza con Barack Obama. Se Obama dovesse diventare presidente, avrebbe la sua linea politica per amministrare il paese. Non è il singolo individuo che può portare avanti il cambiamento progressista in cui noi speriamo, ma sono i milioni e milioni di nuove persone che sono coinvolte in questo processo elettorale. Ci sono persone che hanno votato per Barack Obama, che non avevano mai partecipato prima al processo elettorale, che non avevano fiducia nel processo elettorale, e che sono là perché ripongono una speranza in questo giovane uomo, che ha nuove idee, che si è sempre opposto alla guerra, che parla di come trattare con le lobbies, che parla di come usare i soldi non per costruire nuove carceri o per continuare la guerra, ma per costruire le infrastrutture nelle città. Perciò la speranza è che questi giovani tengano vivo il movimento, e che, se Obama sarà eletto, potranno fare pressioni sul governo, per far sì che il governo sia più responsabile nei confronti della gente. Perché è così che funziona la politica: il politico è in debito con l’elettorato che ha votato per mantenerlo al potere, e se all’elettorato non piace ciò che il politico sta facendo, allora gli elettori possono rimuoverlo dal suo seggio. Perciò tutte queste migliaia di persone che non sono mai state coinvolte prima nel processo elettorale, e che ora seguono Obama, speriamo che possano imporre un’agenda più progressista, per migliorare le condizioni di vita della gente in ogni parte del mondo: speriamo che ci sia una possibilità di discutere dei problemi dei giovani in Italia e in America, speriamo almeno che si crei la possibilità di una discussione, di cui possiamo beneficiare dovunque noi viviamo. Io credo che questa sia la reale possibilità che ci offre questo uomo nuovo, che porta nuove idee, e che è sostenuto da questo massiccio movimento, a cui dovrà rendere conto.
 
Continuo a nutrire qualche dubbio. Ad esempio, leggendo i programmi elettorali di Obama e Clinton (le loro posizioni sulla guerra, sull’assistenza sanitaria, l’istruzione, l’aborto…) io non vedo alcuna differenza, e tu?
 
Certo che c’è una differenza: Hillary Clinton rappresenta lo status quo, rappresenta il vecchio sistema che è sempre stato al potere, che è sempre stato un potere maschile, bianco e dominatore, tanto quanto quello di George Bush prima di lei: repubblicano, con la stessa rappresentazione storica, bianco, storicamente impegnato in un partito particolare, e con un certo tipo di idee. Obama invece è un uomo africano, suo padre è nato in Africa, sua madre è una donna bianca, e lui rappresenta le idee e le aspirazioni della gente che non ha mai avuto potere finora. Perciò, ci sono delle differenze in gioco tra lui e Clinton. E nonostante sia anche lui un membro del partito democratico, io spero che Obama possa cambiare anche le vecchie idee all’interno del partito democratico. Ma questo potrà avvenire solo grazie alle persone che votano per lui, che lo spingeranno a mantenere le promesse che ha fatto prima delle elezioni. In America le elezioni si svolgono ogni quattro anni, perciò io credo che se Obama non rispetterà le promesse fatte, le persone che gli hanno dato il potere glielo toglieranno. Sarà la cosa più giusta da fare, ma diamogli una possibilità, e stiamo a vedere che cosa succede. Non voglio dare troppa importanza a lui, quello che mi interessa sono quei milioni di persone che vogliono un cambiamento nel nostro paese: è questo che mi rende così entusiasta. Perché ho sempre sperato in un cambiamento progressista per l’America, non in un cambiamento contro-rivoluzionario o reazionario.
 
(fine prima parte)

U Brown, Erba Pipa e Baracca a sostegno di ROR

Data di trasmissione

nella puntata di lunedì 10 marzo 2008:
 
Presentazione dell’iniziativa di sabato 15 marzo 2008 al centro sociale Auro e Marco, a sostegno di Radio Onda Rossa.
 
Selezioni musicali tutte dedicate al DJ style: dalle positive vibes di un veterano del reggae giamaicano come U Brown, all’inconfondibile stile afrocampano di ErbaPipa, passando per il raggamuffin in dialetto romanesco di Baracca Sound e Duppy Conquerors.

Io negra, ti parlo bianca & il candidato post-razziale?

Data di trasmissione

nella puntata di lunedì 25 febbraio 2008:
 
Presentazione dell’iniziativa di sabato 1° marzo 2008 al LOA Acrobax: inaugurazione della sala prove/registrazione Renoize, realizzata all’interno dell’ex cinodromo anche grazie alle sottoscrizioni delle dancehall contro il fascismo e del cd della Roma Reggae Coalition, la prima autoproduzione dell’etichetta Renoize. Ne parliamo con un compagno di Acrobax e dell’Associazione "I Sogni di Renato", che ci racconta al telefono il percorso per la realizzazione di questo progetto: uno dei sogni di Renato che diventa realtà.
 
Storie di ordinario razzismo: rassegna stampa su diversi episodi di razzismo che si sono verificati nel corso dell’ultima settimana in Italia e nel resto del mondo.
 
Sabato 23 e domenica 24 febbraio si è svolto a Roma FLAT (Femministe e Lesbiche Ai tavoli): tra i vari tavoli di discussione ce n’era anche uno su femminismo e razzismo… Il collettivo Clitoristrix di Bologna ha distribuito una poesia di Beulah Richardson intitolata Io negra, ti parlo bianca, che affronta il tema della relazione problematica tra donne nere e bianche, tra il black feminism e il femminismo bianco occidentale. Poeta, attrice e attivista afroamericana scomparsa nel 2000, Beulah Richardson ottenne una nomination all’Oscar come miglior attrice non protagonista nel 1967, per aver interpretato il ruolo della madre di Sidney Poitier nel film Indovina chi viene a cena.
 
Segnaliamo infine un commento di Alessandro Portelli sulla campagna presidenziale negli Stati Uniti: Barack Obama, candidato post-razziale? (Il Manifesto, 5 febbraio 2008).
 

Change Is Gonna Come? seconda parte

Data di trasmissione

nella puntata di lunedì 4 febbraio 2008:
 
Ancora sulle primarie negli U.S.A. Il giorno prima dell’attesissimo supermartedì, tutti gli aggiornamenti sul testa a testa tra Barack Obama e Hilary Clinton, col sottofondo musicale di una compilation che raccoglie le voci dell’America nera negli anni delle battaglie per i diritti civili:
 
Change Is Gonna Come. The Voice Of Black America 1963-1973 (Kent Records, UK, 2007)
 
1. A Change Is Gonna Come – OTIS REDDING
2. Only In America – THE DRIFTERS
3. Forty Acres And A Mule – OSCAR BROWN JR.
4. Blues For Mr Charlie Pt 2 – LOU GOSSETT, PAUL SINDAB, JOE LEE WILSON & LITTLE BUTTER
5. Stay With Your Own Kind – PATRICE HOLLOWAY
6. We’re A Winner – THE IMPRESSIONS
7. Have You Ever Seen The Blues – YAPHET KOTTO
8. When Will We Be Paid? – THE STAPLE SINGERS
9. I Don’t Want Nobody To Give Me Nothing (Open The Door I’ll Get It Myself) – JAMES BROWN
10. And Black Is Beautiful – NICKIE LEE
11. The Ghetto – HOMER BANKS
12. Message From A Black Man – THE SPINNERS
13. Oh Lord, Why Lord – PARLIAMENT
14. We Are Neighbours – THE CHI-LITES
15. Cryin’ In The Streets Pts 1 & 2 – GEORGE PERKINS AND THE SILVER STARS
16. The Prayer – RAY SCOTT
17. I Was Born Blue – SWAMP DOGG
18. Run Charlie Run – THE TEMPTATIONS
19. The Revolution Will Not Be Televised – GIL SCOTT-HERON
20. Free At Last – JACKIE DAY
21. To Be Young, Gifted And Black – NINA SIMONE
22. George Jackson – JP ROBINSON
23. Someday We’ll All Be Free – DONNY HATHAWAY

Change Is Gonna Come? un nero alla casa bianca

Data di trasmissione

nella puntata di lunedì 28 gennaio 2008:
 
Difficile scegliere tra la vittoria di un nero e quella di una donna… Sono passate solo due settimane dal Martin Luther King Day, l’anniversario della nascita del leader afroamericano dei diritti civili, e Barack Obama trionfa nelle primarie in South Carolina. La sua schiacciante vittoria ha avuto il voto degli afroamericani e dei giovani come motori propulsivi, mentre Hillary Clinton non è riuscita a conquistare neanche la maggioranza del voto femminile. Tutti gli aggiornamenti sulle elezioni negli Stati Uniti, col sottofondo musicale di una compilation che raccoglie le voci dell’America nera negli anni delle battaglie per i diritti civili:

 
Change Is Gonna Come. The Voice Of Black America 1963-1973 (Kent Records, UK, 2007)
 
1. A Change Is Gonna Come – OTIS REDDING
2. Only In America – THE DRIFTERS
3. Forty Acres And A Mule – OSCAR BROWN JR.
4. Blues For Mr Charlie Pt 2 – LOU GOSSETT, PAUL SINDAB, JOE LEE WILSON & LITTLE BUTTER
5. Stay With Your Own Kind – PATRICE HOLLOWAY
6. We’re A Winner – THE IMPRESSIONS
7. Have You Ever Seen The Blues – YAPHET KOTTO
8. When Will We Be Paid? – THE STAPLE SINGERS
9. I Don’t Want Nobody To Give Me Nothing (Open The Door I’ll Get It Myself) – JAMES BROWN
10. And Black Is Beautiful – NICKIE LEE
11. The Ghetto – HOMER BANKS
12. Message From A Black Man – THE SPINNERS
13. Oh Lord, Why Lord – PARLIAMENT
14. We Are Neighbours – THE CHI-LITES
15. Cryin’ In The Streets Pts 1 & 2 – GEORGE PERKINS AND THE SILVER STARS
16. The Prayer – RAY SCOTT
17. I Was Born Blue – SWAMP DOGG
18. Run Charlie Run – THE TEMPTATIONS
19. The Revolution Will Not Be Televised – GIL SCOTT-HERON
20. Free At Last – JACKIE DAY
21. To Be Young, Gifted And Black – NINA SIMONE
22. George Jackson – JP ROBINSON
23. Someday We’ll All Be Free – DONNY HATHAWAY

 

Razzismo, sessismo e violenza sessuale

Data di trasmissione

i temi della puntata di lunedì 5 novembre 2007:
 
Per lo scopritore della struttura del Dna, lo scienziato e premio Nobel James Watson, i neri africani sono meno intelligenti dei bianchi occidentali. Ma Watson non è nuovo a simili controversie: nel 1997 affermò che una donna avrebbe dovuto avere il diritto di abortire se dalle analisi fosse emersa l’omosessualità del suo bambino. Come se le scelte sessuali potessero essere ricondotte ad una caratteristica genetica… fonte
 
La stessa tesi biologista è alla base della campagna contro l’omofobia della Regione Toscana, che ha suscitato le proteste di Azione Gay e Lesbica. Questa campagna riduce infatti l’omosessualità a una componente biologica, cancellando l’autodeterminazione delle soggettività lesbiche e gay. http://www.azionegayelesbica.it/
 
"Se volete fare i giustizieri, non in nome delle donne", afferma Angela Azzaro su Liberazione. Veltroni, Prodi, Napolitano, Amato, con la scusa che l’uomo che ha seviziato Giovanna Reggiani è romeno, se la son presa con un intero popolo e con tutti i migranti, hanno trasformato la parte del pacchetto sicurezza che riguarda le espulsioni in un decreto legge da approvare subito, hanno invocato leggi speciali come se fossimo in guerra. Hanno, cioè, usato il corpo di quella donna, di tutte le donne, per affermare il loro potere. Un potere maschile e xenofobo. Ma il 90 % delle violenze sulle donne avviene in famiglia. Allora, Veltroni e Prodi, perché non espellete i maschi italiani??? fonte
 
Le donne di tutta Italia, i Centri antiviolenza e l’associazionismo femminista scenderanno in piazza sabato 24 novembre a Roma per condannare la violenza maschile contro le donne e per affermare, come protagoniste, la libertà di decidere delle loro vite nel pubblico e nel privato. http://www.controviolenzadonne.org/

 

Intervista a Tanya Stephens

Data di trasmissione
Durata 1h 9m 31s

 

nella puntata di lunedì 5 marzo 2007:

 
Intervista a Tanya Stephens
Venezia, 17 febbraio 2007
 
Parlaci del tuo nuovo album: Rebelution (VP 2006). Mi piace molto il testo del brano Do you still care, anche perché è la prima volta che un’artista giamaicana parla così esplicitamente dell’omofobia, paragonandola ad ogni altra forma di razzismo… Puoi spiegare al pubblico italiano perché hai scritto questa canzone?
 
«Sentivo il bisogno di scrivere una canzone sull’argomento, perché sono giamaicana, e… sfortunatamente, qualunque artista giamaicano si ritrova cucito addosso lo stigma che è stato creato dagli artisti giamaicani stessi. E visto che questi artisti, per affermare se stessi, finiscono per creare un’immagine negativa di ognuno di noi, ho sentito il bisogno di spiegare che loro non rappresentano tutta la Giamaica. Non sono d’accordo con nessun punto di vista che possa essere in qualche modo offensivo o dispregiativo nei confronti di qualsiasi gruppo di persone, e non ho bisogno di avere qualcosa in comune con un singolo gruppo, per poter imparare a rispettare coloro che ne fanno parte e tutte le loro differenze. Questo è il principio in base al quale io vivo la mia vita e suggerisco ad ognuna/o di vivere la propria. Perciò dovevo scrivere questa canzone, anche perché fa parte della mia vita e del mio lavoro: quello che dico fa parte del mio impegno per cambiare il sistema in cui viviamo. Ed è un lavoro duro quello di mostrare la strada con le nostre parole, ma ci sono tante cose che possiamo cambiare. Ci vogliono troppe energie per far cambiare a qualcuna/o le proprie scelte personali [le preferenze sessuali], ed è solo una perdita di tempo. Sono altre le cose per cui vale la pena di lottare, e io dovevo raccontare questa cosa, perché avevo davvero qualcosa da dire».
 
Che tipo di reazione ha avuto il pubblico quando hai cantato questa canzone in Giamaica?
 
«Ho avuto sempre reazioni positive. Ad un certo punto mi sembrava davvero di aver colpito i cuori della gente. Perché la verità è che nel mondo la gente si è fatta davvero un’idea sbagliata della Giamaica, che è terrificante: pensano che la Giamaica sia un paese omofobo, pensano che in Giamaica la gente sia tutta violenta e aggressiva, senza nessuna ragione, ma non è così. Sì, è vero, c’è la criminalità in Giamaica, ma c’è ovunque nel mondo. Sì, c’è la violenza in Giamaica, ma questo non vuol dire che non ci sia niente di positivo. Il popolo giamaicano è composto da gente di tutti i tipi: c’è una comunità gay molto numerosa, c’è gente di ogni razza, di ogni cultura, di ogni nazione, di ogni religione o credenza. Ci sono così tante persone diverse che vivono in Giamaica, e che vivono in pace, e la criminalità è relativamente poca. Io vivo in campagna e non ho mai assistito ad un crimine. So che esiste, e sento il dovere di essere consapevole di tutto ciò che mi succede intorno, perché parlandone posso cercare di essere d’aiuto, ma non ho mai assistito a un crimine e non sono mai stata vittima di un crimine. Io sento di dover parlare di quello che succede in Giamaica, ma Tanya Stephens non rappresenta tutti i giamaicani, così come quei ragazzi [i cantanti omofobi] non rappresentano tutti noi. La comunità gay è molto numerosa in Giamaica. Molti dei miei amici sono gay, ma io non me ne faccio un problema: non mi ero nemmeno accorta che lo fossero, fino a che la questione non è esplosa sui media. Non scelgo i miei amici in base alle loro preferenze sessuali – è casuale e non mi riguarda – e non considero le scelte sessuali come una questione di cui discutere: perché ci sono molte cose più importanti per cui lottare. Ma lasciami dire una cosa: la Giamaica non è come la rappresentano».
 
Sì, ma qui in Italia, noi che amiamo la musica reggae abbiamo un problema…
La nostra realtà è molto diversa da quella giamaicana: noi ad esempio, abbiamo un sound system autocostruito, che è nato proprio per dare voce a chi in questa società è stata/o sempre ridotta/o al silenzio. E abbiamo scelto il reggae proprio per la sua carica rivoluzionaria e per il suo messaggio politico. Perciò per noi c’è una profonda contraddizione, nel vedere che questa musica viene usata per diffondere messaggi di odio e di discriminazione verso qualsiasi forma di diversità…

 
«Io ho lo stesso problema che avete voi. Davvero. Quando ho cominciato ad appassionarmi alla musica, ero un’adolescente. Ho lasciato le scuole dopo le superiori, e la musica era il mio modo di ribellarmi. La mia famiglia mi diceva: vai all’università, trovati un lavoro fisso, vivi una vita normale… Ma io non sono mai stata “normale”. E il reggae era il modo più semplice per ribellarmi contro tutto questo e per dire: io sono qualcosa di diverso da come mi volete voi, vi chiedo solo di lasciarmi essere me stessa. Ed è così che ho cominciato a fare musica: andavo in giro con gli amici, stavamo all’angolo della strada a fumare erba… Ma con questo non voglio suggerire che questa fosse la cosa giusta da fare: dico solo che questo era il mio modo di ribellarmi alle loro imposizioni. Stavo solo cercando un modo per esprimere quello che sono, e l’ho trovato nel microfono. Certo all’inizio c’era anche una certa superficialità nel mio approccio con la musica, mentre adesso che sono cresciuta vedo meglio il lato più vero del reggae. Perciò è triste, ed è molto doloroso per me, sentire persone di altri paesi, che non conoscono la vera storia del reggae, che non conoscono tutti gli artisti che lavorano nell’industria del reggae, eppure ci descrivono come qualcosa di orribile. È triste, perché c’è tanta gente meravigliosa nell’industria del reggae, e invece c’è solo un gruppo molto piccolo, che ha creato quest’immagine [quello degli artisti omofobi]. Perciò provo la stessa delusione che provate voi. Quando vado da qualche parte e mi tocca difendere il reggae, per me è davvero doloroso, perché so che il reggae non si può ridurre all’immagine creata dagli artisti omofobici. Il reggae non è questo: è qualcosa che unisce la gente, è – come hai detto tu – un mezzo per dare voce a coloro che non hanno mai avuto voce. È il modo più facile per esprimersi. È uno dei pochi generi musicali rimasti al mondo che è ancora capace di parlare per coloro che soffrono. Perciò è un ottimo strumento da utilizzare, e il fatto che venga corrotto in questo modo è triste per tutte/i, inclusa me stessa».
 
A che età hai cominciato a cantare?
 
«Intorno ai sedici… diciassette anni. Ero molto giovane».
 
E come hai cominciato? è diventata subito una vera “professione”, oppure cantavi in chiesa o a scuola?
 
«Nooooo… [ridendo] lasciatemelo dire… io rispetto tutte/i ma non sono religiosa. Io andavo alla dancehall, quella era la mia chiesa!
All’inizio era puro divertimento. E quello è il periodo della mia carriera musicale che amo di più: quando andavo alla dancehall, prendevo il microfono per cantare, e non sapevo nemmeno come avrei fatto per tornare a casa.
Ma era così avventuroso, sai. Era davvero puro. E non ero toccata dal business e da cose del genere, che corrompono la musica e limitano la creatività. Era così… un hobby… solo per divertirmi».
 
Con quale sound system hai cominciato a suonare?
 
«Questa è una domanda difficile, perché la maggior parte dei sound system su cui ho cantato agli inizi sono sconosciuti, sono piccoli sound locali, della regione in cui sono nata, S. Mary. Dovunque sentivo che c’era un sound system che suonava, io andavo là e prendevo in mano il microfono. Ma ad un certo punto sono arrivati i sound system più grandi, a chiedermi di suonare con loro, come Kilimajaro. Suonavo con tutti i sound che erano popolari tra la fine degli anni ottanta e gli inizi degli anni novanta. Dovunque sapevo che c’era una discoteca all’angolo della strada, o un sound system che suonava, io prendevo l’autobus e andavo a sentirlo. E se sentivo una buona vibrazione, andavo là e gli chiedevo: hey, posso prendere il microfono? E così ho incontrato un sacco di gente».
 
E con quale sound system preferisci suonare? qual è il tuo preferito?
 
«Questa è una domanda difficile… In realtà non ho un sound system preferito, ma sono molto amica di Kilimanjaro: è davvero una bella persona e ho sempre fatto delle belle chiacchierate con lui, fin da quando ero un’adolescente, e ci parlo bene ancora oggi. Lui è davvero una persona intelligente: è una delle poche persone nella scena della dancehall che sono dotate di buon senso! Perciò con lui è facile fare una conversazione di un certo livello. È una persona vera, per questo mi piace parlare con lui. Perciò forse ho sbagliato a dire che Kilimanjaro è il mio sound preferito: è che mi piace come persona. Ma ascolto tutti i sound system, Exodus, Stone Love, tutti i sound. Certo, non voglio di mancare di rispetto a nessun sound, ma se mi chiedi con quale ho il feeling migliore, di sicuro è Kilimanjaro».
 
C’è un artista con il/la quale ti piacerebbe cantare insieme?
 
«No, non c’è nessun cantante in particolare con cui mi piacerebbe collaborare. Il mio approccio con gli artisti con cui collaboro è basato sul messaggio che vogliamo esprimere: devo trovare qualcuna/o che la pensi come me su un determinato argomento, piuttosto che cercare un grosso nome da mettere sul disco per promuoverlo, ma poi magari viene fuori qualcosa di falso… Preferisco cercare qualcuna/o con cui ho qualcosa in comune, e che può migliorare la canzone, piuttosto che cercare una celebrità per vendere meglio il disco. Non sono proprio quel tipo di artista…»
 
C’è un’altra canzone molto interessante nel nuovo disco, Warn dem, in cui denunci la fame e la violenza che affliggono la società giamaicana, assieme all’incapacità dei politici, che pensano solo ad intraprendere nuove guerre, mentre tu affermi invece la necessità di disarmare i giovani offrendo loro delle opportunità…
 
«Warn dem fondamentalmente è l’espressione di un altro dei principi filosofici in base ai quale io vivo, e cioè che noi tutt@ contribuiamo a costruire l’ambiente sociale in cui viviamo. Ognuna/o di noi contribuisce, anche se non fa nulla, perché se tu fai qualcosa puoi contribuire a fermare qualcos’altro che sta succedendo. Ognuna/o di noi contribuisce in qualche modo. E io volevo solo dire esplicitamente a tutte/i: facciamo qualcosa insieme, vi avverto, perché anche se voi non volete affrontare il problema, comunque il problema coinvolgerà anche voi. Se c’è un problema, non è mai colpa di una singola persona, tutt@ siamo responsabili, me compresa. Io vivo lì, perciò devo contribuire a risolvere i problemi, come ogni altra singola persona. Perciò dico solo: dai, cerchiamo di affrontare insieme i problemi».
 
Ma allora qual è, secondo te, la soluzione ai problemi della Giamaica?
 
«Non c’è mai una sola soluzione per così tanti problemi. Ma io credo che il primo problema da affrontare sia l’analfabetismo, che è una piaga nel nostro paese. Io credo che se noi cominciassimo dall’istruzione dei nostri bambini, risolveremmo già un problema annoso. Poi è chiaro che dovremmo fare un piano a lungo termine, perché non ci sono soluzioni immediate per i problemi che ci affliggono. Nell’ambito educativo, dovremmo cominciare dai più giovani. Nell’ambito sociale, dovremo cominciare ad insegnare alla gente ad accettare e a rispettare le altre persone e il loro spazio. E dovremmo cominciare ad insegnare l’armonia e l’amore… Negli anni settanta era una cosa grande, con gli hippy che parlavano di pace e amore, ma ora sembra che sia tutto finito, superato, mentre invece dovremmo tornare a insegnare semplicemente alla gente ad amarsi e a rispettarsi l’un l’altra/o. Perché se ami una persona non le fai del male, e rispetti il suo spazio. È una cosa molto semplice, ma funzionerà. E io sento che dovremmo cominciare dai giovani, perché gli adulti… sono cause perse! Non si può fare niente con loro. Ma se cominciamo dai bambini, dalle scuole, dai genitori, insegnando loro dei nuovi modi… abbiamo solo bisogno di cambiare la nostra cultura: la cultura è lo stile di vita della gente, non è qualcosa di fissato una volta per tutte, ma è il modo in cui vivi. Perciò, in qualsiasi modo vivi, quella è la tua cultura, non c’è bisogno che rimanga per sempre la stessa cultura della tua bisnonna. Anche perché lei viveva in un’altra epoca, quindi tu non devi fare le stesse cose. Perciò abbiamo bisogno di cambiare tutte quelle cose che non funzionano, senza problemi. Io stessa mi sono re-inventata diverse volte, e non ho rimpianti per questo. Amo quello che ho fatto quando ero un’adolescente, ma so di non esserlo più: adesso ho 33 anni, e so di non poter vivere più in quel modo, devo trovare una nuova me stessa da adulta… E io credo che con la società dobbiamo comportarci allo stesso modo, se vogliamo risolvere i nostri problemi».

Attica Blues: proposta di trasmissione

Data di trasmissione

 

Il 13 settembre 1971, nel carcere di Attica (stato di New York, U.S.A.), quarantatrè persone vennero trucidate e ottantotto ferite gravemente dai reparti speciali della polizia e dalla guardia nazionale americana. Le vittime erano trentatrè detenuti in rivolta e dieci guardie prese in ostaggio.
 
La protesta era iniziata quattro giorni prima come reazione alle condizioni disumane del carcere, dove l'85% dei prigionieri erano afroamericani e ispanici.
 
Nonostante le promesse di venire incontro alle richieste dei detenuti, il governatore dello stato, Nelson Rockfeller, la mattina del 13 settembre ordinò l’attacco: due elicotteri si alzarono in volo e cosparsero di gas lacrimogeno, mace e pepper tutta la zona, mentre i militari aprivano il fuoco con le armi pesanti, 4000 proiettili in 6 minuti per una carneficina che non deve essere dimenticata.
 

L’incubo di Attica continuò anche dopo: le centinaia di detenuti che avevano preso parte alla rivolta vennero torturati sistematicamente per mesi.
 
Da questo episodio, l’ispirazione per una trasmissione che sia musicalmente “black” e militante (jazz, hip hop, reggae, jungle, r’n’b, soul, funk…), con delle incursioni vocali, come poesie, frammenti di racconti e notizie sugli argomenti che questo episodio appunto ci ispira: dentro c’è il razzismo, la repressione, il carcere, l’impero e molto altro.
 
Attica Blues è il nome che abbiamo pensato per questo spazio. Dopo la strage infatti, molti musicisti militanti, sopratutto nel jazz, scrissero canzoni per non dimenticare. Tra queste c'è Attica Blues di Archie Shepp: la sigla della trasmissione.