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neoliberismo

Trasmissione del 25/03/2015 "La scuola dell'infanzia, dal modello socialdemocratico..../L'esercizio illimitato della forza"

Data di trasmissione
Durata 1h 2m 23s
Durata 3m 38s
 

Puntata del 25/03/2015

“La scuola dell’infanzia/dal modello socialdemocratico a quello neoliberista “

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” A Miren/La scuola per l’infanzia /dal modello socialdemocratico a quello neoliberista/L’esercizio illimitato della forza/Collegamento e confronto con chi lotta negli asili/Quell* che non hanno il genere, ma hanno la classe
” Come riconoscere un anarcomachista”

 
 
La Parentesi di Elisabetta del 25/03/2015
Immagine rimossa.“L’esercizio illimitato della forza”

Nella loro illusione legalitaria, socialdemocratiche e socialdemocratici, riformiste e riformisti, istituzionali e paraistituzionali, credono che le regole legislative abbiano in sé una forza impositiva, ma il potere capitalista-patriarcale è sempre assoluto.

La limitazione del potere non è esercitata dalle regole, ma dalla forza capace di imporre le regole o di trasformarle.

Il legalismo attribuisce alle regole una forza che le regole non hanno perché non viene dalle regole stesse ma dai rapporti di forza e dai ruoli.

E le Istituzioni, in tutte le loro articolazioni, lo sanno.

L’autonomia femminista ha riconosciuto la brutalità del rapporto di forza tra generi, classi, etnie…. partendo da una denuncia dell’arbitrarietà delle regole esistenti. Il buonismo disonesto della “convivenza civile”, delle” bacheche rosa”, degli “appelli allo Stato”, ha portato un attacco mortifero alle lotte del movimento femminista nel loro impegno a leggere, delle regole, la  vera sostanza.

Si è, così, aperta la strada per la costituzione di una legalità liberticida e femminicida.

Un’operazione, questa sì, violenta, in cui il linguaggio esiste essenzialmente per mentire.

La menzogna, l’inganno, la simulazione, dietro i linguaggi politicamente corretti non sono che forme aberranti di comportamento sociale.

La socialdemocrazia, destra moderna, è un’economia criminale, non tanto perché si fonda sulla violazione delle regole faticosamente contrattate nel passato dal  lavoro nei riguardi del capitale, quanto perché tale violazione sistematica non è più considerata un crimine, se non nella visione autolesionista, chissà quanto in buona fede, dei legalisti.

Il crimine sta nell’esercizio illimitato della forza, istituzionale e familiare, anche perché, a questa forza, non si contrappone alcuna altra forza.

Il crimine è nella violenza che si esplica e si perpetua nei commissariati, nei Cie, nelle guerre neocoloniali, nelle carceri, nelle caserme, in famiglia…nelle piazze …contro ogni forma di protesta, di alterità, di asimmetria.

Il crimine è nella “normalità” di questa società disumana.

La violenza non è un elemento particolare ed occasionale della relazione istituzioni- cittadine/i e delle relazioni sociali, ma ne è l’elemento fondante e riproduttivo.

Nessuna ne è al riparo.

Se esiste una legittimità, concetto ben diverso dalla legalità, questa appartiene a chi tenta  di sottrarsi al ricatto economico e consumista di questa società  patriarcale, di cui l’Istituzione è la protesi identitaria, a chi cerca  con sforzo caparbio, capacità, impegno, pagando un alto prezzo, di sovvertire i circuiti dello schiavismo neoliberista.

 

 

La Parentesi di Elisabetta del 4/03/2015 "Riffa"

Data di trasmissione
Durata 6m 38s
“Riffa”

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Ci siamo quasi abituate allo stravolgimento di segni, significati e parole che il neoliberismo ha operato pian piano in questi anni. La parola “riforma” non significa più miglioramento di vita, acquisizione di diritti….. bensì affossamento delle garanzie sul lavoro, distruzione dello stato sociale incremento della disoccupazione, persecuzione dei cittadini/e da ogni punto di vista sociale, fiscale, legislativo……eppure questa parola la stiamo quasi interiorizzando.
La parola sicurezza ormai è diventata un mantra per demonizzare migranti…poveri…antagonisti….diversità…. per militarizzare territori..città..le nostre stesse vite e la gente l’ha interiorizzata Quando viene nominata la parola sicurezza le persone si sentono coinvolte nella vittoriana paura per la plebaglia o per un fantomatico nemico che minaccerebbe la società occidentale.
Poi, leggiamo il Rapporto ISTAT “Noi Italia” che ci dice che”… il 23,4% delle famiglie pari a 14,6 milioni di individui in Italia vivono in una situazione di disagio economico” specificando che”… il 12,4% dei nuclei familiari si trova in grave difficoltà; 10 milioni di persone in condizioni di povertà relativa.”  Ma la questione sociale non esiste e, se esiste, la responsabilità viene data alle famiglie incapaci di affrancarsi dalla miseria e di fornire un quadro educativo di riferimento, naturalmente borghese, ai loro figli.
La “dignitosa povertà”, un sentimento che accompagnava le povere e i poveri e che li riscattava dalla loro condizione, non esiste più, ora la povertà è diventata miseria ed è quella tragica degli Usa. Il neoliberismo ha scatenato la guerra alla povertà non nel senso di eliminare la povertà, ma nel senso di guerra ai poveri, cioè della loro espulsione dalla così detta società legittima. I senza tetto in Italia sono sempre di più e sono sempre più italiani. Cade così anche l’ultima mistificazione : nei campi di così detta “accoglienza” che potete solo immaginare quale sia, non vivono solo Rom, Sinti, migranti e stranieri in genere come vorrebbe la comune vulgata, ma anche tantissimi italiani e italiane.
Qualche giorno fa, nella periferia ovest di Milano, una bimba italiana di 9 mesi è stata rinvenuta morta ” in uno stato di malnutrizione e scarsa igiene” ha dichiarato il medico legale. A chiamare il 118 sono stati i genitori quando si sono accorti che la bambina non respirava più, ma ora sono loro ad essere indagati dalla magistratura e colpevolizzati perché la povertà apre scenari di reato penale. Sono sempre di più i bambini e le bambine sottratti ai genitori e dati in affido o in adozione per la povertà del nucleo familiare. Una doppia condanna: a chi è privo di mezzi di sussistenza vengono sottratti anche gli affetti.
Non sono previsti aiuti economici, altrimenti, così ci dicono i servizi sociali, sarebbe assistenzialismo!
Vengono completamente omesse le scelte economico-politiche, lo smantellamento dello stato sociale, l’ampiezza delle discriminazioni di classe, l’impunità dell’apparato repressivo.

E così succede che a Los Angeles la polizia ammazzi in pieno giorno, senza ragione alcuna, in mezzo ai poveri stracci su cui stava accampato, un senzatetto la cui sola colpa era quella di dormire per strada e di essere quello che questa società ritiene rifiuto sociale.
Però, con enfasi, i media italiani hanno rimbalzato la notizia che il malcapitato aveva precedenti per rapina.
E’ il ritorno all’equazione povero/a uguale delinquente.
E così succede che il ministro Angelino Alfano, nella riunione a Roma per l’allerta antiterrorismo, preveda la repressione e la punibilità penale dell’accattonaggio molesto.
Non si capisce assolutamente cosa c’entri l’accattonaggio con norme che riguardano l’antiterrorismo come non si capiva assolutamente cosa c’entrassero le norme, di fatto contro la lotta NoTav, con il decreto antifemminicidio. O meglio, si capisce benissimo. Gli obiettivi veri sono sempre nascosti dietro pelosissime nobili ragioni.
E chi decide quando l’accattonaggio è molesto? La polizia? Adesso si assume anche il ruolo di servizio sociale! D’altra parte la divisione di ruoli tra servizi sociali e servizi polizieschi è sempre più labile, in una pericolosissima sovrapposizione.
E così succede che nessuno e nessuna si scandalizzi per una campagna che ha fatto il giro dei media mainstream, che è stata propagandata in tutte le città, che occhieggia dalle fiancate degli autobus urbani e che dice…” 1,4 milioni di bambini in Italia è a rischio povertà. Sono i nostri vicini della porta accanto. Famiglie che non riescono più a provvedere alle necessità dei loro figli, emarginati perché poveri……Attiviamo insieme un bonus solidale per acquistare prodotti di prima infanzia, medicine o pagare la mensa scolastica…..Garantiamo ai nostri bambini un futuro più sereno! ” e segue la richiesta di donare due euro via sms o da rete fissa.
Ma non è finita qui! Chi ha bisogno dovrà proporre la propria candidatura per il Bando “Bonus solidali” e partecipare alla riffa per l’assegnazione.
Non stiamo scherzando, non è un brutto sogno, è proprio così. Il problema è che non abbiamo sentito levarsi voci indignate, anime belle scandalizzarsi, sinceri democratici scrivere parole di fuoco…..
E’ il darwinismo sociale, sopravvive in questa vita solo chi ce la fa.
Per questo è necessario e imprescindibile cercare di innescare meccanismi di uscita da questa società, rifiutando ogni forma di collaborazione anche se le richieste sono mascherate da nobili motivi e nobili intenti, rompendo con questi valori mortiferi, sottraendoci tutti i giorni e in tutti i momenti della nostra quotidianità.

 

http://coordinamenta.noblogs.org/post/2015/03/05/la-parentesi-di-elisabetta-del-4032015/

 

Trasmissione del 18/02/2015 "La morte nella società del Capitale"

Data di trasmissione
Durata 1h 0m 53s
Puntata del 18/02/2015

“ La morte nella società del Capitale”

” Profezia/La morte nella società del Capitale, Parte prima
/Forse ci siamo dimenticate…./ La morte nella società del Capitale” Parte seconda”

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Materiali sulla trasmissione estratti da:

DIETRO IL PARAVENTO
“Aspetti sociali, psicodinamici e relazionali dell’assistenza ai morenti”
 di Antonella Bonucci

contatti: antobon06@libero.it

(…….)In passato, nella sua quasi totale impotenza, il medico svolgeva soprattutto il compito di nuntius mortis; ora assume la fisionomia di quello che può contrapporsi, a volte con successo, a una morte data fino ad allora per ineluttabile e che comincia a spostarsi , impercettibilmente forse, ma in modo continuo, sempre più in avanti; la malattia si sostituisce ad essa, iniziando quel lento mutamento che porterà il medico ad essere non un soccorritore, colui che allevia la sofferenza, ma lo strenuo oppositore della morte, costi quel che costi; contemporaneamente “… ha rinunciato al ruolo che fu per lungo tempo il suo, senza dubbio nel XVIII secolo. Nel XIX, parla solo se lo si interroga, e già con qualche riserva.” (Ariés, 1975).
Si fa strada e si manifesta (ma come abbiamo visto viene da lontano) la paura che vengano dichiarate morte persone che non lo sono affatto: è il primo segno, probabilmente, di quella scarsa fiducia che, a fronte di conquiste sempre più importanti, aprirà un solco tra i medici e tutti gli “altri”, unita a una paura ancestrale (forse una sorta di incredulità?), che si abbevera al “fiume dell’angoscia che trae origine dalla notte dei tempi ”. (Ziegler, 1975).
Agli antichi luoghi della morte (la casa, la chiesa, il cimitero) si affianca, lentamente, l’ospedale; alla famiglia, che proprio ora raggiunge il massimo della sua coesione e partecipazione, si affianca la classe medica, che man mano, ma inesorabilmente, la sostituirà negli ultimi istanti di vita dei suoi cari.
Il rituale stesso della morte comincia lentamente a cambiare intorno alla metà del secolo: al capezzale del moribondo non vanno e vengono più tutti i componenti della sua rete sociale, che si riducono via via alla famiglia, fino a limitarsi, nel secolo successivo, a pochi componenti della stessa. La figura del prete si ridimensiona; lungi dal voler rinunciare al suo secolare ruolo di amministratore della buona morte, comincia malvolentieri ad arretrare nei confronti del medico, e spesso viene chiamato al capezzale del morente quando ormai questi non è più in grado di rendersi conto della sua presenza. Non possiamo però certamente parlare di “scristianizzazione” della morte; piuttosto diremo che essa abbandona i toni terroristici per privilegiare quelli consolatori.
Il Romanticismo però, per certi versi, celebra la morte, se pure nei toni eroici e sentimentali che gli sono propri, anche arrivando a descrizioni particolareggiate e a rievocazioni o premonizioni che sfociano, per noi contemporanei, decisamente nel macabro. Essa inoltre, pur allontanandosi dall’ineluttabilità che le era stata propria nei secoli precedenti, acquista anche un carattere di possibilità individuale, di consapevole scelta. Nel secolo caratterizzato dalle grandi rivoluzioni borghesi e dal socialismo scientifico, si afferma una visione che, ponendo come irrinunciabile l’affermazione dei propri diritti, pone l’uomo di fronte al primato di una vita degna di essere vissuta, della possibilità in altre parole di conquistare in terra quel paradiso che sempre era precedentemente prefigurato come premio successivo alla morte. Questa appare ora come possibilità, se pure non cercata e celebrata come in un certo romanticismo, per affrancarsi dalla schiavitù e dallo sfruttamento.
I vivi, o meglio coloro la cui morte è ancora presumibilmente lontana, cominciano a nascondere al moribondo il suo stato. Sia in ambito cattolico, che riformato, la veglia funebre si trasforma e, per così dire, si impoverisce: comincia ad essere non più tollerata quella commistione tra vita e morte che l’aveva caratterizzata; dicevamo che diminuiscono le visite, ma cambia anche l’abitudine di mangiare, di riunirsi, di celebrare in fondo la vita proprio in presenza della morte, affermandone la quotidianeità e la familiarità.
Prende piede l’abitudine di far soggiornare i morti negli obitori, sancita da leggi che si oppongono alla forte resistenza del pensare comune e si allunga l’intervallo di tempo tra morte e sepoltura: “… la famiglia viene progressivamente espropriata del suo controllo sul corpo morto ” (Vovelle, 1983). Il cadavere, fino ad alra seppellito avvolto in un sudario, viene ora sempre più spesso rinchiuso il prima possibile in una bara, per sottrarlo in fretta alla vista dei vivi. Il rituale che nei secoli precedenti aveva privilegiato gli ultimi momenti di vita riservando poco tempo alle esequie (con l’eccezione ovviamente dei ricchi e dei potenti, che anche in questo caso davano un segnale della loro forza) si capovolge, tralasciando l’attenzione verso l’agonia a favore di regole, scritte o meno, sempre più minuziose nei confronti delle cerimonie funebri.
E il morente, che per secoli era stato l’incontrastato protagonista della propria morte, comincia a cedere la scena alla sua famiglia e al medico; inizia un processo che continuerà impetuoso per tutto il secolo scorso e porterà alla cancellazione della morte nella coscienza dei vivi; essa, ovviamente è pur sempre un’amara realtà, ma l’uomo comincia a scegliere di vivere come se non ci fosse: “… il morire è diventato in Occidente un fatto osceno ”. (Urbain, 1980).
LA MORTE IN OSPEDALE

L’allungarsi della speranza di vita e la convinzione che, almeno per noi stessi, una morte violenta sia solo una remota possibilità, ci indurrebbero a ritenere il morire un evento naturale e non un’anticipata aggressione, ma l’atteggiamento medico e sociale nei confronti della malattia testimonia, a mio parere, esattamente il contrario, ascrivendo anch’essa ad un livello di violenza che, con gli opportuni accorgimenti, è possibile, perlomeno in una società come la nostra, evitare. E se pur sono innegabili e tantomeno irrinunciabili le conquiste mediche che ci conducono a sconfiggere infezioni che solo un secolo fa avrebbero portato alla morte non solo i più deboli, è evidente che questo ha comportato l’aumento della vita media insieme però anche a un aumento dell’agonia media, se così possiamo esprimerci, ovvero a un prolungarsi di situazioni di estrema sofferenza, fisica e morale (ma qual’è il confine?) in attesa di una morte comunque inevitabile, e che ha reso ingestibile da parte della famiglia il periodo, ormai sempre più lungo, che la precede.
Uno dei primi aspetti che questa situazione ha determinato è stato lo spostamento dell’agonia dalla casa all’ospedale…
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E in ospedale si muore, inoltre, anche per atto formale. Nella cosiddetta “Dichiarazione di Harvard” pubblicata il 5 agosto 1968 sul Journal of the American Medical Association, vengono ridefiniti, ad opera di un “Ad hoc Committee to examine the Definition, of Brain Death” i “criteri ormai superati della definizione della morte” a causa dell’onere che persone in condizioni disperate “rappresentano per le famiglie e gli ospedali” e per le “controversie quando si presenta il problema del prelievo di organi destinati al trapianto”. Non più evento naturale (cessazione della respirazione e del battito cardiaco) semplicemente constatati dal medico, ma valutazione di “segni” che, pur in presenza di respirazione e quindi attività cardiaca artificialmente indotte, ratificano lo status di cadavere per un corpo, tutto sommato, ancora a cuore battente. Ricordiamo del resto che pochi mesi prima, esattamente il 3 dicembre 1967, a Città del Capo il prof. Christian Barnard aveva effettuato il primo trapianto cardiaco.

La “pornografia della morte”

…. Un esempio lampante di come massicciamente la morte sia stata allontanata dalla nostra società è stato dato, negli anni ’60, dal sociologo inglese Geoffrey Gorer, che nel suo ormai classico lavoro, The Pornografy of Death (1963) ripercorre, anche sulla scorta di esperienze personali (la morte del padre, nel 1915, e del fratello nel 1932) il progressivo perdersi dei riti del lutto nella società borghese di cui fa parte. Alla fobia vittoriana nei confronti del sesso si sovrappone prima, e la rimpiazza poi, una pornografia della morte che tende a cancellarne ogni riferimento, fino a negare ai sopravvissuti anche il conforto della partecipazione sociale al loro dolore. Lo stesso Gorer racconta che in seguito alla morte del fratello, tenuto all’oscuro del suo cancro fino alla fine (nonostante fosse un medico), non fu allestita la veglia funebre nè fu esposta la salma. Per la preparazione del cadavere furono chiamate due ex infermiere che, al loro arrivo, chiesero: “Dov’è il malato?”, e dopo averlo sistemato esclamarono: “Il paziente ha un aspetto incantevole adesso”.
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Ci troviamo di fronte, sembra di poter dire, ad un’incapacità strisciante di celebrare, anche attraverso i riti funebri, la partecipazione al cordoglio e il lutto, quelle cerimonie che nei secoli hanno rappresentato un valido e collettivo antidoto alla paura della morte, o forse soltanto un modo di alleviare una convivenza obbligata: “… l’uomo è un animale che seppellisce i propri morti (e se agisce così è perché ha coscienza della fatalità della sua propria morte), che crede nell’efficacia dei miti di passaggio o d’immortalità e del rituale che ne deriva, che spera di sopravvivere nella memoria di coloro che venereranno la sua tomba… è il suo nulla che egli combatte avendo cura dei suoi morti” (Thomas, in Campione, 1996). Abbandonare questo cammino, scegliere di vivere come se la morte non esistesse ha sicuramente un prezzo, sociale e personale.

ALCUNE INTERPRETAZIONI

La scienza si separa dalla filosofia e anche la morte, come ogni evento, viene integrata nell’insieme dei fenomeni naturali che possono essere spiegati, ma nel corso dei secoli, lentamente, rimane avulsa da quel sistema ideale che aveva reso possibile la sua integrazione sociale.
Ziegler (1975), dal canto suo, coerentemente con la sua visione economico-politica, attribuisce la genesi dell’atteggiamento nei confronti della morte da parte della “società bottegaia capitalistica” alla mercificazione e reificazione dell’essere umano. I morti non producono e soprattutto non consumano; essi, insieme ai malati inguaribili, sono affidati a specialisti che sbrigano le necessarie formalità, manifestando anche in questo la capacità di trarre profitto dall’impensabile. E se non siamo certamente tutti uguali, nelle nostre democratiche società, più che mai ciò appare vero di fronte alla morte.
Accanto a ciò occorre anche considerare il profondo individualismo (“individualizzazione” come la definisce Elias) che caratterizza la vita e la coscienza dell’uomo moderno: “Nelle società avanzare gli uomini per lo più pensano a se stessi come a esseri indipendenti, a monadi senza finestre…” (Elias, 1982). Inevitabile quindi morire isolati , così come si è vissuto; nonostante si sia (forse superficialmente) convinti che la propria vita abbia senso all’interno delle relazioni, particolari e generali, con gli altri esseri umani, “… nel momento dell’autoriflessione… nelle società avanzate in genere prende il sopravvento il sentimento, largamente diffuso … che ognuno esista per sé stesso e del tutto indipendentemente da altri individui, dal mondo esterno” (ibid.).
Un ulteriore punto di vista, che ci sembra complementare comunque a quello di Ziegler, ritiene che nella nostra società, dove valori primari sono la bellezza, la giovinezza, il denaro, non ci sia posto per malattia e morte, che ci ricordano purtroppo come, nonostante trapianti, lifting e quant’altro, questo grande carnevale che la pubblicità e la televisione ci prospettano di continuo prima o poi dovrà finire.
E’ necessario quindi ricostruire un linguaggio, se non della morte, irriducibilmente individuale e fra l’altro impossibile da sperimentare in modo fruibile, quantomeno del morire, ovvero di “… quella parte della vita che conduce alla morte, che – diversamente dalla morte – può essere modificata, trasformata, con adeguati interventi e che presenta dinamiche e momenti quindi identificabili e descrivibili” (Moretti, 1985), senza peraltro rinunciare a quel “planetario di costruzioni simboliche e di pratiche rituali, adatte ad attutire la crudeltà dell’evento” (Di Mola, 1994). A questo rivolge il suo pensiero l’essere umano, continuando a sopportare privatamente quello che, per secoli, spesso aveva condiviso con i suoi simili: le sue paure, le sue angosce sono le stesse di sempre, ma amplificate dalla profonda solitudine che lo attende alla fine del percorso.
“Molti sono dunque i terrori che circondano la morte. Dobbiamo ancora scoprire ciò che gli uomini possono fare per garantire ai loro simili una fine tranquilla e pacifica; l’amicizia di coloro che sopravvivono, la sensazione che debbono avere i morenti di non essere d’ingombro fanno senz’altro parte di questo programma. La rimozione sociale, l’atmosfera di malessere che spesso oggigiorno circonda gli ultimi istanti di vita, non sono certamente d’aiuto per gli uomini. Forse dovremmo parlare con più franchezza della morte, smettendo di considerarla un mistero. La morte non cela alcun mistero, non apre alcuna porta: è la fine di una creatura umana. L’etica dell’homo clausus, dell’uomo che si sente solo, decadrà rapidamente se cesseremo di rimuovere la morte accettandola invece come parte integrante della vita. Se l’umanità scompare, tutto ciò che gli uomini hanno fatto, tutto ciò per cui hanno combattuto, tutti i loro sistemi e credenze, umane e sovrumane, non avranno più senso.” (Elias, 1982).
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ALCUNE INTERPRETAZIONI

… É necessario pertanto esprimere la depressione che comporta l’accettare la morte, non sentircene più perseguitati e vivere la possibilità di perdere ciò che amiamo come “rafforzamento delle nostre energie creative [per] essere in grado di convivere con il dolore di una perdita, che è equivalente alla morte stessa, per poter tentare di integrare la morte con la vita” (ibid.), l’oggetto cattivo con quello buono, grazie alla crescita individuale, che è in fondo anche un cammino verso la fine della vita.
Analoga per certi aspetti è la lettura che dà Fornari (in Campione, 1996) del passaggio da una scissione che proietta la morte fuori da sè (come nei popoli primitivi e nel bambino) riconducendola a un attacco nemico, cattivo, e la sua elaborazione depressiva, grazie all’intervento di processi cognitivi che, da accadimento esterno, l’hanno ricondotta a un evento naturale, che occorre accettare: “… i fatti cognitivi sono intervenuti nel far cambiare il nostro atteggiamento di fronte alla morte” grazie però alla simbolizzazione che permette di tenere al nostro interno un concetto negativo “ … per cui il fatto di morire può essere tenuto dentro solo … in quanto lo trasformo in pensiero … in significati verbali poiché [se così non fosse] lo espellerei” (ibid.).
Judd ci mette però in guardia rispetto a un’altra manifestazione della scissione: celebrare la bella morte, idealizzarla, misticizzarla, significa mettere in atto una difesa inconscia, ancora una volta disintegrante, in cui leggere un caparbio rifiuto “di quanto in essa è di effettiva perdita e distacco, e di tutta la sofferenza che abitualmente comporta”. (ibid.).

GUARIRE E CURARE

Troppo spesso, infatti, questi due aspetti dell’assistenza medica sono forzatamente separati, se non contrapposti, fino ad essere attribuiti a ruoli diversi, o reputati tali, ovvero quelli del medico e dell’infermiere: “Mentre si dice che la medicina mira a curare [to cure], l’impegno terapeutico o la finalità morale della professione di infermiera è identificato con il prendersi cura [to care]. La medicina e i medici, si dice, si concentrano spesso sulla cura dello stato di salute del paziente; la professione di infermiera, invece, è basata su un prendersi cura olistico…” E ancora, citando una rivista di infermieri: “La scienza e la tecnologia mediche si occupano della diagnosi e della cura delle malattie. Questo modello riduzionista… inevitabilmente seziona, frammenta e spersonalizza gli esseri umani… Il prendersi cura che fa parte del ruolo dell’infermiera, richiede che la totalità degli esseri umani sia preservata nella sua integrità” (Kuhse, 1997).
A questo concetto di cura come guarigione sono finalizzate tutte le disponibilità professionali e tecniche, che si rivelano però fortemente inadeguate rispetto alle particolarissime esigenze di un paziente che muore, privo di risorse e di speranze davanti a una medicina che forzatamente, convinta che questo sia l’atteggiamento migliore per lo stesso malato, continua a considerarlo solo un corpo con determinati sintomi, e non lo vede come una persona che sta attraversando la crisi più drammatica, perché definitiva, della sua intera esistenza.
Nella circostanza della malattia terminale infatti, in cui la cura medica, tradizionalmente intesa, non ha più senso nell’ottica di un ripristino delle condizioni di salute, il prendersi cura assume una valenza fondamentale, e non ha senso quindi negarlo o delegarlo tutt’al più ai volontari ma, come ormai hanno maturato in decenni di esperienza le realtà che si occupano dei morenti, è un impegno che va assunto nella sua interezza da un equipe multidisciplinare fortemente motivata, non solo in senso etico, ma soprattutto professionale.
DIRE O NON DIRE
Il medico attribuisce così alla propria difficoltà (culturale e personale) di confrontarsi con la morte, un carattere di universalità, e giustifica “la [propria] tradizionale reticenza … ad instaurare con il paziente, fin dall’inizio della malattia, un leale e trasparente processo informativo sulle sue condizioni di salute” (Cunietti et. al. in Di Mola, 1994) con l’argomentazione che questo potrebbe gettare il malato in uno stato confusionale o depressivo, implicante anche il “rischio di suicidio” (Bressi – Invernizzi, 1994).
Molti medici inoltre ritengono che l’ignoranza possa essere uno strumento terapeutico, contrapposta alla certezza (quantomeno quella, spesso sopravvalutata, che un’indagine può giustificare) che invece potrebbe eliminare la speranza dall’orizzonte del malato. Da questo punto di vita la comunicazione rappresenta per medici e pazienti, non un’informazione, ma una vera e propria sentenza o condanna, che grava pesantemente su ogni ulteriore possibilità di relazione, considerando anche che nel nostro contesto sociale tutto “sembra cospiri a tener fuori la malattia e il male, impedendone l’accesso nell’area delle relazioni … Se è il dire che crea i fatti, il tacere li può trattenere dall’essere reali” (ibid.).
Non è infrequente perciò che sia la famiglia ad essere informata delle condizioni del paziente e che su di essa quindi gravi la responsabilità di valutare quanto questi sia in condizione o meno di ricevere la notizia, oppure che il peso di una scelta in tal senso ricada di fatto sull’infermiere, per quanto non ufficialmente investito, se non altro perché interagisce col malato per molto più tempo del medico.

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Se è opportuno quindi tracciare delle coordinate di massima che possano, nella consapevolezza assoluta dell’individualità delle persone, essere un riferimento per l’operatore che comunica una diagnosi, è opportuno anche chiarire che certamente non si tratta di un compito qualsiasi, ma che la motivazione più spesso addotta, ossia proteggere il paziente, in realtà non è altro che il desiderio di proteggere se stessi dall’incapacità di intrattenere una relazione e soprattutto di contenerne l’inevitabile ritorno emotivo.
Occorre comunque fare attenzione a che questa necessità deontologica e fondamentalmente etica di informare correttamente il paziente non sia vista come un imperativo a comunicare, ad ogni costo, una diagnosi infausta. L’ascolto del paziente dovrebbe essere la linea guida di ogni intervento, beninteso non un ascolto che si limiti a una raccolta di informazioni, quanto una sensibilità che sappia cogliere la capacità di assorbire una notizia di questo genere e che soprattutto ne sappia rispettare tempi e modalità individuali.
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Nel tentativo di trovare una strada che sia intermedia e propositiva tra il coinvolgimento e il distacco, tra il guarire e il curare, l’operatore si trova costretto dall’elaborazione sociale a svolgere il ruolo di guardiano della morte, che “vigila una realtà scomoda affinché non emerga a mettere in discussione gli equilibri” (Morretta-Tommasi, 1995), ma contemporaneamente deve confrontarsi con un percorso che è parallelo a quello descritto nel paragrafo precedente.
Si attua così una collusione tra le paure del malato e quelle del curante, laddove la presunta incapacità del primo di esprimere la sua angoscia e di parlare della morte è speculare all’angoscia di chi lo circonda: la “congiura del silenzio” spesso non serve al morente, serve solo agli altri.
Questo tentativo di non coinvolgersi, di lasciare le emozioni fuori dal proprio lavoro ha però un prezzo; le regole classiche della medicina qui servono poco: Marie de Hennezel (1995) osserva che “ci si sfinisce meno… impegnandosi a fondo e imparando a ricaricarsi, che non proteggendosi dietro un atteggiamento difensivo… Fra il personale curante chi si difende di più è poi chi si lamenta di essere spossato”.
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Nella relazione d’aiuto che si delinea tra il morente e chi lo assiste l’impossibilità di confrontarsi con una necessità, la morte, che il mondo contemporaneo cerca affannosamente di respingere, impedisce lo strutturarsi di un rapporto creativo. L’operatore si ritrae davanti all’enormità di assumersi un carico che gli appare insostenibile, nell’equivoco, ancora una volta che l’altro esprima una richiesta di vita, attraverso una domanda che appare quindi “globale, infinita” (Ranci Ortigosa-Rotondo, 1996).
Gli operatori devono allora elaborare “un cambiamento di prospettiva… l’aiuto possibile non porterà al benessere e alla salute, ma è un aiuto a vivere il percorso verso la morte… significa vivere l’incertezza … mettere le proprie competenze tecniche e professionali da parte, ascoltare e contenere le proprie emozioni e quelle dell’altro, confrontarsi con la realtà della morte” (ibid.).

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A conclusione di questo paragrafo riportiamo le parole di una giovane infermiera anonima (citato in Ziegler, 1975) che si è trovata, per così dire, dall’altra parte della barricata, e quindi forse più consapevole dei suoi colleghi, dei loro vissuti e di quelli dei malati:
“Di che cosa avete paura? Sono io che sto morendo. Lo so, siete impacciate, non sapete che cosa dire, che cosa fare. Ma credetemi, se voi partecipaste alla mia morte non commettereste un errore. Riconoscete per un momento che vi importa… restate, non andatevene, aspettate… Per voi la morte fa parte della routine, per me è una cosa nuova e unica… Ho tante cose da dire. Non ci vorrebbe molto tempo per parlare un poco con me… Se voleste ascoltarmi e condividere quel poco che mi resta di vita e se addirittura piangeste con me, mettereste forse in gioco la vostra integrità professionale? I rapporti da persona a persona non possono dunque esistere in un ospedale? Sarebbe talmente più facile morire… in un ospedale, circondata da amici…”
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La commissione ministeriale italiana per le cure palliative ha recepito, nel 1999, le indicazioni dell’O.M.S. (1990) ed ha emanato una definizione operativa delle cure palliative, secondo la quale esse:
– affermano la vita e considerano il morire come evento naturale
– non accelerano né ritardano la morte
– provvedono al sollievo del dolore e degli altri disturbi
– integrano gli aspetti psicologici e spirituali dell’assistenza
– aiutano i pazienti a vivere in maniera attiva fino alla morte
– sostengono la famiglia durante la malattia e durante il lutto.
Le cure palliative si caratterizzano inoltre per:
– la globalità dell’intervento terapeutico, avente per obiettivo la qualità della vita residua
– la valorizzazione delle risorse del malato e della sua famiglia
– la molteplicità delle figure professionali e non professionali coinvolte nel piano di cura
– il pieno rispetto dell’autonomia e dei valori della persona malata
– la forte integrazione e il pieno inserimento nella rete dei servizi sanitari e sociali
– l’intensità delle cure che devono essere in grado di dare risposte pronte ed efficaci al mutare dei bisogni del malato
– la continuità della cura fino all’ultimo istante
– la qualità delle prestazioni erogate.
Riteniamo che tutto questo non sia un progetto ambizioso o utopistico, ma piuttosto il minimo di assistenza che possiamo dare ai nostri simili e che speriamo sarà fornita a noi stessi. Tutte le persone che vi sono e vi saranno implicate (medici, infermieri, inservienti, assistenti spirituali) dovranno però essere fermamente motivate e adeguatamente formate. Non è un lavoro come un altro, e sicuramente la psicologia può e potrà dare un contributo fondamentale perché diventi, da eccezione, una norma,
“con un avvertimento. Alla psicologia spesso si chiede quello che non può dare: delle risposte valide in ogni situazione. La psicologia – o almeno la psicologia che più mi affascina – interroga, dialoga, va a rovistare ovunque, distoglie dal modo di pensare che ci è consueto… Inoltre la psiche non vive soltanto nel mondo interiore o negli studi degli psicoterapeuti. E’ anche altrove: nel quartiere, nell’ambiente, nel traffico, nei supermercati, nei cronicari… è avara di risposte e soprattutto interroga; può dare, deo concedente, una sensibilità diversa” (Spagnoli, 1995).
L’auspicio è quindi che questo patrimonio di esperienza e di sensibilità diventi una pratica comune in tutte le istituzioni sanitarie e che possa “stimolare gradualmente una trasformazione delle condizioni della morte nella nostra società”1.

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1 Circolare ministeriale relativa all’organizzazione delle cure e all’accompagnamento dei malati in fase terminale. Repubblica Francese – Ministero degli Affari Sociali – Direzione generale della Sanità – Parigi, 26 agosto 1986 (in Sebag-Lanoë, 1986).

http://coordinamenta.noblogs.org/post/2015/02/20/podcast-della-trasmissione-del-18022015/

La Parentesi di Elisabetta del 18/02/2015 " Forse ce ne siamo dimenticate...."

Data di trasmissione
“Forse ce ne siamo dimenticate…..”

Immagine rimossa.

Quando, alcuni anni fa, è stato diffuso il rapporto Nato “Urban Operations in the Year 2020”, abbiamo sentito un brivido lungo la schiena e inquietudine serpeggiante si è impadronita di noi. Non che noi non sapessimo come si muove il neoliberismo, la violenza che mette e sa mettere in atto, la sua completa mancanza di scrupoli condotto dall’unica idea guida del profitto, però quando abbiamo letto le parole con cui il Rapporto spiegava quello che sarebbe successo di lì al 2020 e come il potere socio-economico-politico si sarebbe mosso, ci siamo sentite spiazzate.

L’Operazione Terrestre o Operazione Urbana (UO-2020) all’orizzonte dell’anno 2020 esaminava la natura probabile dei campi di battaglia, i tipi di forze terrestri le loro caratteristiche e capacità.

iIl “Rapporto Urban Operations in the Year 2020” era redatto dalla RTO (Studies Analysis and Simulation Panel Group, SAS-030) :
La RTO, l’Organizzazione per la Ricerca e la Tecnologia della NATO è il centro di convergenza delle attività di ricerche/tecnologiche (R&T) per la difesa in seno alla NATO.

Riportiamo virgolettato dal testo: «Lo spazio di battaglia dell’anno 2020 sarà variabile in densità, non-lineare e più disperso. Sarà di natura cellulare, multidirezionale e sempre più determinato da elementi aerei e spaziali che si trovano al disopra del campo di battaglia. L’ambiente urbano sarà l’ambiente di conflitto più difficile, ma allo stesso tempo il più probabile». Questo dice e, in un contesto così delineato, si sottolinea la centralità di una razionalizzazione dell’interoperabilità delle forze NATO, dato anche l’allargamento seguìto al crollo del Patto di Varsavia, e, in particolare, da un punto di vista strettamente operativo, si caldeggia il dominio sull’informazione, una maggiore capacità tecnologico-militare e una ottimizzazione della logistica.

Alcune branche tecnologiche sono considerate d’importanza cruciale ed elenca, testualmente, «……le tecnologie elettriche ad alta potenza, le armi ad energia diretta, le tecnologie informatiche, le tecnologie delle telecomunicazioni, le tecnologie per la guerra elettronica e dell’informazione, i dispositivi elettronici, la biotecnologia, le tecnologie delle strutture e dei materiali, i fattori umani e le interfacce uomo-macchina, le tecnologie d’attacco di precisione, l’automatizzazione e la robotica».
L’interesse degli esperti NATO verso gli scenari urbani non è affatto casuale, è messa in preventivo la rivolta nei paesi occidentali e dato che le aree metropolitane continuano a crescere senza posa e a catalizzare la conflittualità sociale e politica, i contingenti militari impegnati nelle missioni NATO si trovano sempre più spesso a dover operare in ambienti urbani dove vengono a cadere gli elementi tattico-strategici che erano tipici dei grandi conflitti bellici del Novecento. Inoltre, la complessità “umana” e sociale degli scenari urbani, nell’ottica di una salvaguardia spettacolare di quelli che sono i miti democratici fondativi di un organismo come la NATO, aumenta la problematicità degli interventi e rende necessaria una versatilità tattica contro i punti critici del “nemico”.

Quindi, sapevano e sanno tutto…..cosa faremo… come ci muoveremo… come proveremo a ribellarci… e questo prima ancora della nostra ribellione…….il brivido si trasforma in una sensazione di inadeguatezza e di impotenza. Dovremmo essere noi a pensare per prime/i, dovremmo essere noi a inventare  sistemi di lotta.

Lo stesso brivido lo avevamo sentito quando nel ‘99 le truppe Nato avevano attaccato la Jugoslavia, bombardato le fabbriche di Belgrado e l’ambasciata cinese (per vedere l’effetto che fa?), quando il governo D’Alema aveva trascinato l’Italia in una guerra senza l’ombrello dell’Onu e senza avallo del Parlamento. La guerra era lì, di nuovo in Europa, al di là di uno straccio di mare.

Era la nuova legittimazione della Nato. Concepita in funzione anti patto di Varsavia, una volta sciolto questo, non avrebbe avuto più motivo di esistere. L’aggressione alla Jugoslavia ha fornito agli Stati Uniti l’occasione per avviare il nuovo concetto strategico della Nato, quello di esercito di aggressione al servizio dell’imperialismo statunitense. per rovesciare governi asimmetrici ai suoi interessi e come polizia militare per reprimere le rivolte popolari nel cuore stesso dei paesi occidentali.. Non si tratta più di affrontare direttamente il “nemico”, ma di modellare le condizioni per migliorare e rendere più efficace il proprio ingaggio militare tattico.

E qui intervengono le cinque fasi di gestione militare delle operazioni urbane, ovvero l’USECT:

“Understand”/Conoscenza dell’ambiente/ saper individuare e valutare le infrastrutture fisiche principali, le specificità sociali politiche e culturali della popolazione, le modalità di circolazione e di controllo locale delle informazioni, la possibilità di creare o sviluppare forze “collaborazioniste”…;

“Shape”/Modellamento/ capacità di creare enclavi sicure per la popolazione civile e/o di isolare le forze nemiche anche inibendo le loro potenzialità “culturali” e comunicative nei confronti dei civili…;

“Engage”/Ingaggio militare spaziare da operazioni di combattimento su vasta scala a interventi umanitari nei confronti dei civili e che si pone come fine il raggiungimento degli obiettivi tattico-strategici prefissati a monte dell’azione….;

“Consolidate”/Consolidamento/) consolidamento delle posizioni conquistate e progressiva disorganizzazione dell’avversario, soprattutto grazie all’instaurazione di poteri locali “amici” e al controllo sui piani di ricostruzione….;

“Transition” /Transizione/ riconsegna dei meccanismi di controllo dell’area urbana alle autorità locali con progressivo sganciamento del contingente militare impiegato.

Forse abbiamo dimenticato tutto questo? Forse quello che sta succedendo in Ucraina non ci fa correre i brividi lungo la schiena? La Siria e l’Ucraina, passando per l’Iraq e la Libia, sono gli ultimi tasselli. Da qui, anche, la cooptazione nella Nato di paesi dell’Est europeo.

Questo è il senso del ruolo della Nato che a partire dalla Jugoslavia ha destabilizzato interi paesi e aree geografiche, questo è il senso dell’apparizione dei Talebani, dell’Isis e di tutta la pletora degli integralismi musulmani, pagati, equipaggiati ed addestrati dagli Stati Uniti direttamente o tramite gli stati vassalli.. Qatar.. Arabia Saudita… Bahrain, questo è senso del rovesciamento di Saddam Hussein e della sua impiccagione, questo è il senso dell’aggressione alla Libia e del linciaggio di Gheddafi, questo e non altro è il senso dell’aggressione alla Siria e del colpo di stato in Ucraina.

La Nato oggi si propone come polizia internazionale rompendo la divisione tradizionale tra esercito e polizia, trasformando intere aree geografiche in luoghi di detenzione a cielo aperto, balcanizzando interi ambiti geografici con la nascita di Stati da trasformare in basi militari Usa, crocevia di ogni traffico illecito sul modello del Kossovo.

La Nato non è più un problema solo di chi si pone in maniera antagonista, non è più un problema esclusivamente politico e ideologico, è motivo di preoccupazione per tutti/e quelli/e che pensano che diritti civili, diritto internazionale e autodeterminazione dei popoli non siano solo parole vuote di propaganda.

Per questo l’uscita dell’Italia dalla Nato diventa tema centrale su cui mobilitare e riunire tutte le forze che rifiutano il modello neoliberista, che sperano in una politica internazionale pluralista sottratta al monopolio di un solo paese e che ricercano autenticamente scenari di pace.

Uscire dalla Nato, chiudere le basi Nato in Italia, oggi è uno degli obiettivi politici più importanti che abbiamo di fronte. Le analisi politiche non possono essere solo esercizio teorico, devono tramutarsi in scelte precise.

http://coordinamenta.noblogs.org/post/2015/02/19/la-parentesi-di-elisab…

La Parentesi di Elisabetta del 4/02/2015 "Giallo e rosso"

Data di trasmissione
Durata 5m 50s
“Giallo e rosso”

Immagine rimossa. Immagine rimossa.A Roma, la scalinata di Viale Glorioso che porta da Trastevere al Gianicolo era stata dipinte con i colori giallo e rosso per festeggiare la vittoria del secondo scudetto della Roma dell’ 82/83.

Questa presenza storica nel panorama della città è stata nei giorni scorso sbiancata su disposizione dell’ineffabile sindaco Marino che bisogna sempre ricordare che è dirigente del PD nonché noto medico trapiantista.

La vicenda va ben al di là del tema strettamente contingente perché denota una mentalità per cui non contano ideali, sogni, speranze e passioni, ma un presunto decoro.

Chiarito che dipingere una scalinata in giallo e rosso non deturpa niente, è necessaria una ulteriore e ben più importante precisazione: chi ha sollecitato l’iniziativa e chi materialmente l’ha eseguita ( non si nasconda dietro il ditino di formulazioni tanto accattivanti quanto fuorvianti) con la stessa logica avrebbe cancellato anche “W l’Italia” durante il Risorgimento e “Via i tedeschi” durante l’occupazione nazista di Roma.

E’ la stessa mentalità per cui un altro dirigente del Pd, ex segretario della CGIL, che ogni tanto viene riproposto, bontà sua, come leader di una fantomatica sinistra che dovrebbe rinascere, Cofferati, sanzionava le scritte fatte durante i cortei a Bologna perché violavano la proprietà privata dei palazzi e la bellezza della città e voleva far pagare ai manifestanti stessi, sempre bontà sua, e agli organizzatori le spese per la pulizia delle strade dopo la manifestazione.

Per non parlare dell’ex segretario del PD, ex direttore dell’Unità, Walter Veltroni, che quando era sindaco di Roma ha fatto affiggere manifesti per tutta la città, questi sì con spreco di denaro pubblico e deturpamento dell’ambiente urbano, che invitavano, con tanto di numero telefonico, la cittadinanza a denunciare chi osava scrivere sui muri. Non solo, ma aveva tentato di istituire un repertorio di chi acquistava bombolette spray e/o vernice nei negozi di ferramenta e affini con l’obbligo per i commercianti di tenere aggiornato l’elenco trasformandoli in poliziotti ausiliari.

In definitiva il culto della delazione da instillare nei cittadini/e, la mentalità poliziesca in cui imbrigliare commercianti e commessi/e.

Tutti questi avvenimenti, però, non sono fatti isolati, ma pezzi del mosaico che fa sì che il ministero degli interni e la polizia si costituiscano parte civile nei processi contro i manifestanti, magari, guarda caso, contro i/le Notav e fiocchino le condanne amministrative con relativi risarcimenti danni che sono veri e propri macigni contro ogni forma di dissenso. Vorrebbero farci protestare solo e soltanto con processioni dove chiedere, sapendo in anticipo che non otterremo nulla, una qualche grazia all’autorità costituita che ha sostituito dio , la madonna e i santi.

Un’ubriacatura , un’onnipotenza di potere che per potersi esercitare deve arrivare in ogni anfratto dei territori, delle città, dei quartieri e delle vite personali.

Noi siamo femministe e scriveremo sempre e comunque in ogni dove e su qualunque scalinata che non c’è proprietà privata, autorità civile, simbolo religioso rispetto a cui ci fermeremo con ossequioso rispetto. La nostra vita, la nostra libertà di scelta vale molto di più di qualsiasi muro pulito.

Non dimentichiamo che quando ci fu l’aggressione alla Jugoslavia, con la violazione della costituzione e senza l’approvazione del parlamento, apparvero a Roma tante scritte sui muri contro i bombardamenti delle fabbriche di Belgrado e contro D’Alema, allora presidente del consiglio, scritte che furono cancellate in una notte, sindaco Francesco Rutelli, dal solito ineffabile ufficio al decoro urbano.

Sindaci e servizio che sono stati, invece, latitanti quando, sempre a Roma, in via Angelo Emo apparve una scritta che diceva “partigiani vermi”. In quell’occasione hanno voltato gli occhi da un’altra parte: la proprietà privata e il decoro urbano non erano più così importanti.

La scritta è stata corretta da una mano sensibile che ha sostituito la parola vermi con “viva i partigiani” E nessuno l’ha vista, per fortuna, questa mano, perché altrimenti sarebbe incorsa nei rigori della legge.

Tutto questo è controllo sociale e fa parte di un unico progetto insieme ai lampioni intelligenti , alle ZTL, alle telecamere, alle cimici ambientali nei locali pubblici…..naturalmente veicolato con nobili motivazioni, tanto che girano per la città zelanti volontari che sotto l’egida del comune e a titolo gratuito, si prestano a cancellare scritte e staccare adesivi senza rendersi conto che sono parte di un sistema di repressione, che si prestano al controllo poliziesco del sociale, che fanno passare il principio che si possono far lavorare gratis le persone.

Il neoliberismo è un progetto scellerato e nazista e in Italia lo naturalizza il PD.

 

http://coordinamenta.noblogs.org/post/2015/02/05/la-parentesi-di-elisabetta-del-4022015/

La Parentesi di Elisabetta del 28/01/2015 "Borsa nera"

Data di trasmissione
“Borsa nera”

Immagine rimossa.  Immagine rimossa.Durante gli anni della seconda guerra mondiale e in quelli immediatamente successivi si verificò il fenomeno della borsa nera. Nonostante le pene fossero molto severe divenne così importante che coinvolse molta parte della popolazione.

La minoranza che non ne ebbe bisogno apparteneva ad un ambito privilegiato. Anche in guerra e nei periodi di crisi c’è chi sta bene e magari accumula grandi ricchezze sul dolore e la miseria dei/delle più.

Nonostante le campagne di demonizzazione che propagandavano che la borsa nera era “contro la patria”, che sabotava lo sforzo bellico, che imboscava le derrate alimentari…. e nonostante la repressione vera e propria che arrivava fino alla fucilazione, il mercato clandestino finì in concomitanza con il miglioramento delle condizioni sociali degli anni ’50.

Questo conferma l’inconsistenza di chi pensa che il ricorrere a mezzi definiti illegali da parte dei più sia qualche cosa di leggibile antropologicamente, magari con risvolti razzisti, da far ricadere sulla testa di …migranti….Rom…meridionali…senza tetto…disadattati sociali a vario titolo insofferenti alle regole …..non a caso i più poveri e le più povere.

La maggior parte delle persone la notte vorrebbe dormire sonni tranquilli e se sceglie strade che questo sistema definisce illegali lo fa perché le sue condizioni economiche sono inaccettabili o perché il livello di sopruso ha raggiunto limiti di intollerabilità.

Perché abbiamo ricordato la borsa nera? Perché la gente dimentica, non fa tesoro di quello che racconta la storia e si fa coinvolgere dall’ideologia dominante.

La memoria non dovrebbe servire a oleografiche cerimonie sterili, funzionali a far dimenticare che le situazioni si ripetono seppure sotto altre vesti, ma ci dovrebbe ricordare che i protagonisti sono sempre gli stessi e la stesse.

La platea dei poveri in Italia, per limitare il discorso al nostro paese, si allarga e i poveri e le povere sono sempre più poveri/e e perciò possiamo ipotizzare verosimilmente che tanti, troppi dovranno trovare loro malgrado una soluzione per mangiare almeno una volta al giorno, per avere un tetto sopra la testa, per accedere alle cure, per comprare un paio di scarpe, un cappotto e mandare i figli e le figlie a scuola.

A nessuno/a piace vivere sotto i ponti o in una macchina, per chi ce l’ha, o andare a dormire negli ospedali pubblici o alla stazione o lavare i vetri ai semafori e magari avere un bambino/a a cui è negata la mensa scolastica perché non ha pagato la retta.

I gretti, gli indifferenti, i benpensanti non siano tanto sicuri della loro attuale condizione economica, l’esperienza greca e portoghese ce lo insegna, il modello americano si sta espandendo anche in Europa. Le statistiche ufficiali statunitensi, naturalmente false e taroccate al ribasso, ci dicono che 50 milioni di americani vivono in condizioni di povertà da paesi del terzo mondo.

Gettare nella pattumiera il neoliberismo, questo mostro tentacolare dalle mani adunche e insanguinate che lacera la condizione dei/delle più per il privilegio sgangherato e volgare di una minoranza, è una necessità. Chi ne veicola i valori per tornaconto personale non si creda assolto e assolta, dietro il belletto e il trucco delle belle e forbite parole c’è il volto della morte che semina lutti.

I ruoli sono sempre gli stessi, c’è chi rastrella, chi è attivo/a nelle espulsioni e detenzioni, chi picchia i manifestanti, chi licenzia, chi strumentalizza le oppressioni, chi fa finta di non vedere e si gira dall’altra parte…. E chi si espone, chi lotta, chi paga per questo un prezzo molto alto….

 

http://coordinamenta.noblogs.org/post/2015/01/29/la-parentesi-di-elisabetta-del-28012015/

La Parentesi di Elisabetta del 21/01/2015 "I poveri,le povere e i cammelli"

Data di trasmissione
Durata 6m 20s
“I poveri/le povere e i cammelli”

Sembra, diciamo sembra perché le notizie dei media sono da prendere sempre con le molle, che una vecchietta di 82 anni, Giovannina, sfrattata da casa, abbia volutamente lasciata aperta la bombola del gas e scritto un biglietto in cui diceva che così l’appartamento , chi l’aveva sfrattata, non se lo sarebbe goduto. E l’appartamento è saltato in aria, provocando nel palazzo un morto e parecchi feriti.

Immagine rimossa.

Al di là delle letture psicologiche, antropologiche e innatistiche, che lasciamo a chi le teorizza e le motiva, è evidente che la povertà è una condizione sociale e politica e la sua percezione è cambiata nel corso del tempo.

Nella cultura giudaico-cristiana che tanta parte ha avuto nella storia dell’Europa, i poveri trovavano conforto nel principio che le pene che pur dovevano subire in questa vita, se fossero state accettate con serenità, sarebbero state ricompensate nell’aldilà.

In pratica la traduzione del principio evangelico “..è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco vada in paradiso”.

E questo si traduceva nel “dovere” dei ricchi di essere caritatevoli e di conquistarsi il regno dei cieli attraverso le opere, soprattutto di bene.

La prima rottura con questo quadro è operata dalla Riforma protestante nella versione luterano-calvinista che, recuperando Agostino in contrapposizione a Tommaso D’Aquino, teorizzava e teorizza che la ricchezza è la manifestazione tangibile della predilezione di dio.

Non a caso la Riforma per le modalità con cui si impose, reprimendo e soffocando le istanze comunistiche di Muntzer, costituì una spinta importante per l’affermarsi della borghesia e contribuì a creare le premesse perché la stessa si imponesse come classe dirigente.

Poi, il trionfo del capitalismo negli anni della sua affermazione, cioè nella stagione vittoriana, coincise con la percezione e la lettura dei poveri/e come delinquenti e dei quartieri popolari come problema di ordine pubblico.

Fu la Rivoluzione d’ottobre, trasformando il marxismo da tema per iniziati a strumento concreto e il comunismo da utopia, uno dei tanti sogni coltivati dall’umanità, a realtà realizzata e realizzabile, a costringere la borghesia ad affrontare il problema dei poveri/e con modalità diverse.

Fu la paura del comunismo che aleggiava dopo la rivoluzione d’ottobre a spingere la borghesia ad elaborare l’idea che fosse necessario, per la propria conservazione e crescita, un rapporto diverso sia con la povertà nei paesi occidentali, sia con i popoli del terzo mondo per i quali coniò la teoria del “desarrollo”.

La venuta meno della paura del comunismo, la demonizzazione della sua stessa idea e il contemporaneo autosviluppo del capitalismo che è approdato al neoliberismo, hanno rimosso nella borghesia qualsivoglia idea di mediazione con i poveri e le povere, qui da noi e nei paesi del terzo mondo.

Il capitale si mostra ora con il suo vero volto, senza il trucco con cui si era mascherato, e si esplicita compiutamente come nella stagione vittoriana.

I poveri sono tali per colpa loro e vanno affrontati con criteri di ordine pubblico. Sono potenzialmente tutti delinquenti.

I quartieri dove si affollano vanno percepiti con preoccupazione di ordine legale-poliziesco-militare.

I popoli del terzo mondo vanno riportati alla stagione coloniale, guidati da proconsoli occidentali di estrazione locale, devono rinunciare ad ogni pretesa di effettiva indipendenza, devono cedere le loro materie prime alle multinazionali occidentali e le popolazioni locali devono essere ridotte in semi-schiavitù e accettare la nostra penetrazione economica.

In definitiva una vittoria a tutto campo dei valori della cultura capitalista, una volta veicolata attraverso il principio della superiore civiltà e ora attraverso quello della vera democrazia.

Un cocktail esplosivo, mix di alcune idee guida: l’irriformabilità della natura umana, la naturalità delle differenze sociali, la normalità dell’ accettazione delle ingiustizie non più perché lo vuole dio, ma perché questo è il destino dell’umanità e lo vuole il mercato.

Ma, evidentemente, la vecchietta non si è fidata del premio nell’al di là e tanto meno della teoria del cammello. Non si è colpevolizzata per la sua condizione di indigenza pensando di meritarsi l’esclusione sociale per incapacità come teorizza il neoliberismo, ma non è neppure sprofondata in sensi di colpa e non si è vittimizzata come pretende questa società perché ha dichiarato di non essere affatto pentita.

Ma non è che forse qualcosa ha capito?

Ma se l’avessero trovata morta stecchita di freddo su qualche panchina, si sarebbe pentito qualcuno?

Ma di chi è la responsabilità di tutto questo, dello sfratto e del palazzo saltato in aria? La responsabilità è delle Istituzioni, di chi autorizza sfratti senza preoccuparsi di che fine faccia chi abitava lì, di chi gli sfratti li esegue nascondendosi dietro il comodo schermo della legalità e della legge, di chi non attiva i servizi sociali per trovare alternative abitative valide e dei servizi sociali stessi la cui unica preoccupazione sembra che sia togliere i figli/e alle madri detenute. Questo sfratto è passato attraverso diversi snodi istituzionali e tutti sono rimasti indifferenti alle conseguenze sociali delle loro scelte e dei loro comportamenti.

Il neoliberismo esplicita fino in fondo la natura del capitalismo ed è di una violenza inaudita ed è più che mai valido quello che diceva Rosa….o socialismo o barbarie.

 

http://coordinamenta.noblogs.org/post/2015/01/22/la-parentesi-di-elisabetta-del-21012015/

La Parentesi di Elisabetta del 14/01/2015 "Apprendisti stregoni e pifferai"

Data di trasmissione
Durata 7m 1s
“Apprendisti stregoni e pifferai”

Immagine rimossa.

Con riferimento all’assalto alla redazione di Charlie Hebdo e alle vicende successive si fanno tante illazioni e qualcuno ha delle certezze sugli esecutori materiali. Ma la giurisprudenza, in questo e in tutti gli altri paesi, ci dice che i mandanti sono responsabili quanto, se non di più, degli esecutori.

E i mandanti sono facilmente identificabili in quelli che hanno sdoganato il fondamentalismo islamico.

E’ una storia che parte da lontano, dal colpo di Stato contro Mossadeq in Iran, promosso dall’Inghilterra e dagli Usa e non lo diciamo noi, ma le carte desecretate proprio negli Stati Uniti.
Poi è venuto l’Afghanistan, dove per rovesciare un governo laico, tra l’altro con numerose donne che ricoprivano alte cariche istituzionali , sempre gli Usa con l’aiuto dei servizi pakistani, hanno sostenuto e appoggiato i Talebani.
Poi ancora, l’aggressione alla Jugoslavia, con relativi bombardamenti aerei, che ha disintegrato uno stato federale, multietnico e multiconfessionale, portando per la prima volta dopo il ’45, la guerra dentro l’Europa, addirittura ai confini con l’Italia, in un crescendo di crimini con l’uso dell’uranio impoverito, con il bombardamento delle fabbriche, della televisione di Stato e relativa redazione e dell’ambasciata cinese. Oggi la Jugoslavia è un mosaico di staterelli alcuni dei quali veri e propri crocevia della malavita organizzata internazionale.
Ed ancora l’Iraq, la Libia e, ultima arrivata, la Siria.
Per rimanere nel mondo arabo, gli ultimi tre paesi citati erano laici. Contro di loro sono state scatenate le forze più retrive dell’integralismo mussulmano finanziate, equipaggiate ed addestrate sempre dagli Usa con l’aiuto dei Servizi dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi.
Veri e propri apprendisti stregoni hanno evocato le forze più oscurantiste di quelle aree geografiche e, come per i talebani, sono poi loro sfuggite di mano.

Le vicende francesi presentano un altro risvolto peculiare, di dominio pubblico e sotto gli occhi di tutti, per indagare il quale non è necessario essere raffinati politologi o studiosi di geopolitica ed è rappresentato dal fatto che non solo la Francia partecipa attivamente all’aggressione alla Siria, ma ha svolto un ruolo importante in Libia e ha mandato truppe in tutta l’africa francofona in un rapporto di dipendenza e contemporaneamente di autonomia nei confronti dell’imperialismo statunitense.

Ma l’aspetto più importante e che ci riguarda più da vicino è che, nel nome della patria attaccata, si è fatto appello all’unità della nazione, facendo dimenticare la divisione in classi e la lotta di classe, riproducendo il meccanismo utilizzato alla vigilia della prima guerra mondiale che aveva tanto bene funzionato in quella occasione.
A Parigi, i potenti della terra a braccetto in prima fila, quelli che affamano, bombardano, uccidono, occupano territori, devastano risorse e popolazioni, abbattono lo stato sociale, gettano sul lastrico ogni giorno gente senza lavoro e senza casa….proprio loro hanno chiamato a raccolta e i pifferai hanno suonato i loro strumenti in ogni dove chiamando tutto il paese sotto il tricolore…… tutto il variegato mondo socialdemocratico odierno si è compattato, dimenticando o facendo finta di dimenticare, non solo la lezione della storia, ma soprattutto i discorsi tanto nobili e belli quanto inconsistenti e falsi fatti fino al giorno prima.
Gli stessi discorsi pelosi che hanno consegnato vasti strati delle periferie urbane ai fascisti. La sovrapposizione, volutamente operata dal neoliberismo attraverso la socialdemocrazia di parole come “sinistra” con il politicamente corretto, con il feticcio della legalità e della democrazia occidentale, ha consegnato l’insofferenza, l’alterità nei confronti di questa società all’integralismo islamico.
E qui si smaschera il vero volto di verdi… socialisti…. socialdemocratici…. veri e propri ascari e collaborazionisti dei progetti neocolonialisti.
Le classi non esisterebbero più, non esisterebbero più oppressi e oppressori, ricchi e poveri….ma una sola minaccia, il nemico esterno e tutti/e avrebbero il dovere di rispondere in difesa della civiltà occidentale contro la barbarie.
Ma la barbarie non era il capitalismo?
In definitiva si è trattato di una vera e propria prova generale, un passo avanti verso l’aggressione alla Russia e alla Cina, una verifica della risposta della popolazione occidentale di fronte alla chiamata alla guerra che per le caratteristiche economiche e militari dei paesi aggressori e di quelli aggrediti si trasformerà in una vera e propria catastrofe per l’umanità.
A conferma che il capitalismo, nel suo naturale processo di autoespansione non può non ricorrere alla guerra, tanto più nella stagione neoliberista in cui è approdato, stagione caratterizzata da un attacco senza esclusione di colpi contro la piccola e media borghesia,i lavoratori tutti/e, i popoli del terzo mondo e tutti quei paesi che non accettano e che recalcitrano e che non vogliono diventare fabbriche a cielo aperto delle multinazionali e/o aree di penetrazione economica.
Gli stati europei si trovano nella situazione di voler esercitare il loro ruolo imperialistico e nello stesso tempo di essere vassalli dello stato del capitale, cioè gli Usa, che li chiamano all’ordine sotto la propria bandiera.
Gli Stati Uniti lavorano su un doppio binario, da una parte vogliono usare gli stati europei, e, contemporaneamente, sabotano l’Unione Europea nei cui confronti il prossimo devastante colpo sarà il TTIP.
Tempi cupi ci aspettano, non si tratta di essere pessimiste si tratta di essere realiste.
Vediamo di non fare la fine dei topi di Hamelin, recuperiamo la lotta di genere e di classe.

 

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La Parentesi di Elisabetta del 7/01/2015 "Vigili e Chomsky"

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“Vigili e Chomsky”

I/le vigili urbani/e di Roma sono oggetto di un attacco tanto insensato quanto infondato.

L’amministrazione capitolina di fronte al fatto che i vigili non hanno aderito ad una prestazione straordinaria-volontaria in concomitanza con il Capodanno (ma non erano quelli/e attaccati ai soldi?) ha modificato i turni di lavoro, commettendo un palese sopruso, e ha richiamato in servizio personale in ferie o a riposo violando consapevolmente lo strumento della reperibilità che andrebbe utilizzato solo per le catastrofi e, si

ccome a buttar lì numeri fa sempre effetto ha sparato la cifra di 835 dipendenti coinvolti saltando a piè pari ferie…riposi…maternità…

Ma, d’altra parte, cosa aspettarsi da un sindaco che è dirigente del Pd, medico trapiantista e che ha nominato Alfonso Sabella assessore alla Legalità e Trasparenza che nel 2001 venne nominato “coordinatore dell’organizzazione, dell’operatività e del controllo su tutte le attività dell’amministrazione penitenziaria in occasione del G8 di Genova”. Rientravano tra queste attività anche quelle tristemente note che si svolsero a Bolzaneto. Sotto gli occhi di tutti è che il suo comportamento in quell’occasione non è stato certo irreprensibile, anzi, il Tribunale di Genova, anche se escluse il dolo, considerò tuttavia tale comportamento “gravemente colposo”. Pur emettendo una sentenza di archiviazione, il Tribunale invitò a tener conto in altre sedi della correttezza del suo comportamento, per prendere le opportune misure disciplinari. Misure che, come si sa bene, non furono mai adottate.

Ma i vigli urbani se ne facciano una ragione, sono in buona compagnia di netturbini…infermieri…insegnanti…ferrovieri…perché i veri destinatari di questo attacco sono i lavoratori pubblici/che tutti/e etichettati/e come fannulloni.Immagine rimossa.

Il metodo usato dal neoliberismo è sempre lo stesso. Si individua una categoria sociale a cui addebitare le colpe del malessere collettivo e da dare in pasto ai cittadini /e.

Quindi, di volta in volta..i pensionati sarebbero parassiti che costano troppo alla collettività….i commercianti , i liberi professionisti, i piccoli imprenditori evasori fiscali a cui addebitare il tracollo dello stato sociale…..è la traduzione nel tessuto sociale della truffa della crisi economica che serve a giustificare privatizzazioni, precarietà, flessibilità, disoccupazione di massa, smantellamento dello stato sociale, della sanità e dell’istruzione pubblica, svendita delle imprese statali ai privati, possibilmente alle multinazionali.

In pratica vengono adottate la strategia della distrazione che consiste nel distogliere l’attenzione dai problemi importanti facendo infervorare i cittadini e le cittadine su temi di volta in volta scelti allo scopo e la strategia della gradualità facendo accettare misure inaccettabili passo dopo passo. Si perde così di vista la totalità del progetto in un susseguirsi di provvedimenti sempre separati fra loro.

Il neoliberismo è riuscito a mettere giovani contro anziani, dipendenti pubblici contro dipendenti privati, il popolo della partita IVA contro i salariati, i poveri contro i miserabili….in definitiva ha rotto la solidarietà tra lavorator/trici e la solidarietà tra gli oppressi/e, compresi uomini e donne al di là di belle parole e pelose iniziative.

E’ questo che bisogna oggi ricomporre: tutti gli strati sociali e i ceti massacrati dal neoliberismo che per la loro sopravvivenza possono e devono unirsi contro il tentativo, per ora riuscito, di naturalizzare il neoliberismo nella società.

E’ questo infatti il senso della parola “riforme” e della così detta “modernizzazione”.

E’ questo il ruolo dei quisling, degli ascari, dei collaborazionisti, dei sindacati concertativi che hanno accettato il principio, assolutamente contrario allo spirito e agli scopi dello sciopero, di un’autorità, come se questa fosse neutrale e super partes, che dello sciopero stesso programmi e pianifichi lo svolgimento perché non arrechi danno, dicono loro, alla cittadinanza.

E’ questo il ruolo dei governi d’ispirazione presidenziale e piddina che si sono succeduti in questo paese a partire dal governo D’Alema.

I/le vigili urbani/e, di fronte a questo accanimento violento e strumentale, dovrebbero chiedersi come si sono comportati/e quando gli attacchi sono stati rivolti ad altri settori e dovrebbero riflettere sul fatto che dal sentirsi lavoratori e lavoratrici appartenenti al mondo del lavoro e, in senso lato, di sinistra, hanno fatto un percorso per cui premono per entrare nel comparto sicurezza e hanno voluto essere armati.

Forse loro non hanno letto Chomsky e i suoi dieci punti, ma Renzi e sodali sì, e utilizzano, come è costume dell’attuale socialdemocrazia riformista, le categorie di sinistra per meglio stravolgere la comprensione dei loro obiettivi e naturalizzare anche qui da noi il neoliberismo e una società di tipo statunitense, ribadendo il modello degli USA che si presentano e propongono come Stato del Capitale.

Il neoliberismo è una società medioevale, ottocentesca e nazista ed è un crimine contro l’umanità.

 

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La Parentesi di Elisabetta del 17/12/2014 "Inventarsi la giornata"

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“Inventarsi la giornata”

  Immagine rimossa.Il capitalismo nella sua essenza autoespansiva ha la necessità di distruggere le economie di autosussistenza e marginali.

La distruzione delle economie di sussistenza comporta le “guerre umanitarie”, maniera elegante per giustificare il furto delle materie prime dei paesi del terzo mondo e la strumentalizzazione del tema dei diritti civili e in particolare di quelli delle donne perché con questa scusa vengono scatenate in quegli sfortunati paesi guerre interetniche e religiose che mandano al potere governi obbedienti ed asserviti all’occidente, quasi sempre integralisti e fondamentalisti con l’affossamento dei tentativi di costruzione di società che rivendicano laicità ed indipendenza.

La distruzione dell’economia marginale, invece, viene attuata soprattutto  nei paesi a capitalismo avanzato e qui da noi si manifesta con la criminalizzazione dei lavori di risulta che servono alla sopravvivenza materiale e immediata di persone e famiglie.

Naturalmente con “nobili motivazioni” .

I parcheggiatori abusivi sarebbero violenti e vengono equiparati a quelli che chiedono il pizzo, ma, guarda caso, vengono sostituiti con società che sono “autorizzate” a gestire i parcheggi e che, a loro volta, magari, fanno parte di filiere che si occupano dei campi più disparati. I bagarini, che non si sa che danno possano fare, vengono denunciati, multati e i loro biglietti sequestrati. Lo spettatore, però, non ha nessun vantaggio, anzi non può più comprare un biglietto all’ultimo momento, bensì ha l’aggravio del costo del diritto di prevendita che viene d’autorità incluso nel biglietto stesso.

Poi ci sono i così detti venditori abusivi che non sono altro che povera gente che cerca di sbarcare il lunario mettendosi ai margini dei mercati e che sono oggetto di veri e propri raid con sequestro della mercanzia, con scene di disperato dolore che sfociano qualche volta nel suicidio anche con modalità forti come il darsi fuoco.

Queste situazioni sono molteplici e si trovano negli ambiti più disparati, ma il tratto che le unifica è la necessità, non la scelta, di mettere insieme il pranzo con la cena e magari di mangiare almeno una volta al giorno.

La lettura della società divisa in classi è espulsa dal linguaggio e dall’immaginario. La povertà è una colpa dovuta a incapacità, indolenza, indole indocile e asociale.

E l’umana pietà è stata asfaltata in nome della logica del profitto.

I lavavetri sono letti come assillanti scansafatiche, chi chiede l’elemosina come partecipe di fantomatici racket malavitosi con quantità di denaro nascoste sotto il materasso, i Rom come ladri, asociali, sfruttatori di bambini. Ma pensate veramente che a qualcuno/a faccia piacere andare in giro tutto il giorno con la pioggia e con il sole a prendersi gli insulti della gente?

Gli africani/e, scappati/e dai loro paesi, dove la piccola proprietà agricola è stata smantellata dalla rapacità delle multinazionali occidentali, dove le bidonvilles delle città si sono ingrandite a dismisura per la fuga da campagne ormai incoltivabili, approdano da noi nella speranza di trovare occasioni per sopravvivere e magari per aiutare la famiglia, anche perché abbiamo fatto loro credere che siamo paesi felici, buoni e ricchi. E, invece, trovano rastrellamenti, detenzione amministrativa, rimpatri forzati e guerra fra poveri.

Ma in un crescendo, non rossiniano, ma osceno e violento, si dà una vera e propria  caccia ai falsi invalidi o a chi continua a riscuotere la pensione della nonna morta, come se ci fosse qualcuno che non preferirebbe un vero lavoro al vivere di espedienti.

Ma, guarda un po’, la maggior parte di questi casi si trovano al sud, come se questo fosse dovuto ad una caratteristica propria della gente meridionale. Si introduce, così, oltre alla condanna sociale anche un forte connotato di razzismo e si dimentica che tutto ciò è legato al ritardo economico di quelle aree geografiche nato in concomitanza con l’unità d’Italia che ha ridotto e trattato quei luoghi come colonie interne.

E allora? Una volta smascherati e tolto il sussidio dell’invalidità civile, di cosa campano?

Andranno a ingrossare la schiera di quelli/e che non hanno casa, che sono costretti a vivere nelle roulotte, nei campi di accoglienza che tanto accoglienti non sono?

Le economie marginali vengono perseguitate come vere e proprie forme delinquenziali e il neoliberismo instaura business sugli emarginati attraverso onlus e ong, associazioni e centri studi…… perché tutto viene perseguito, inglobato, controllato e messo a profitto. Ma i veri delinquenti sono quelli che dirottano le ricchezze del paese, che pure ci sono, verso gli apparati industriali-militari…..le forze di sicurezza…. le missioni all’estero ….. il mantenimento delle truppe americane nascoste dietro la sigla Nato….

Il neoliberismo è metabolismo sociale e si è infilato in ogni anfratto della vita…..ha destrutturato la capacità di indignarsi…attraverso il linguaggio politicamente corretto, legalista e violento dei sindaci del Pd che hanno la responsabilità maggiore nell’ aver introdotto la cultura poliziesca del sociale. La maggior parte della gente non si domanda più perché tante/i si rifugiano nelle stazioni, dormono negli aeroporti o negli ospedali, non si chiede perché, vuole soltanto non vedere, non essere disturbata da questa umanità dolente e non si rende conto che il crinale che divide emarginati e cittadini/e legittimi/e si assottiglia sempre più.

Solidarietà affettuosa e partecipe alle povere e ai poveri, a chi è costretto a sfidare tutti i giorni la miseria e ad inventarsi la giornata.

 

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