Ascolta lo streaming di Radio Onda Rossa

femminismo

Parentesi del 9/3/2016 "L'ennemi principal"

Data di trasmissione
Durata
https://coordinamenta.noblogs.org/post/2016/03/10/la-parentesi-di-elisabetta-del-932016/ “L’ennemi principal”

Immagine rimossa.

Christine Delphy, femminista materialista francese, dichiarava in un famoso articolo degli anni’70, che la questione più importante era l’individuazione del nemico e, nel caso in questione, si riferiva al sistema di espropriazione e di dominazione patriarcale.

Ma, al di là dello specifico di quell’intervento, la dichiarazione è fondamentale perché senza l’individuazione del nemico e lo smascheramento di come questo agisce, le lotte diventano inutili, fuorvianti e costituiscono un notevole spreco di energie. Oltre ad avere il dannosissimo risultato, proprio per il fatto che sono fuorvianti, di demoralizzare le militanti e i militanti e allontanarle/i dall’agire politico.

Il discredito da cui ora è colpita  la sinistra, infatti viene da lontano, viene dalla mancata individuazione e denuncia con fermezza e determinazione del ruolo, negli anni ’60 e ’70, del PCI e della socialdemocrazia, cosa che ha permesso l’annientamento delle lotte di quegli anni e che ha trascinato fino ad ora l’equivoco su queste entità politiche nelle svariate configurazioni che hanno assunto, permettendo il massacro del concetto stesso di sinistra, la demonizzazione del termine compagno/a per arrivare fino alle dichiarazioni che non esisterebbero più destra e sinistra e che la politica è sporca.

Ora, leggendo la chiamata per le manifestazioni contro la guerra del prossimo 12 marzo salta agli occhi la mancanza assoluta del nome, neanche pronunciato per sbaglio, degli Stati Uniti.

Il neoliberismo, con tutti i suoi corollari, non rappresenta altro che la fase attuale del capitalismo nella sua autoespansione. Le delocalizzazioni industriali, le crescenti e disumane disuguaglianze, la povertà cronica e diffusa non sono il frutto della crisi o la fatale conseguenza dello sviluppo sociale, ma il risultato di decisioni che riflettono il forte spostamento dei rapporti di classe in favore del capitale. Il modello non è da inventare, non si costruisce a tentoni, ma è quello statunitense. L’America riplasma il mondo a sua immagine. Ma, tutto ciò ,passa attraverso la colonizzazione semiotica e ideologica che si opera con la diffusione di questi metaconcetti. Disimpegno dallo Stato sociale, rafforzamento delle componenti poliziesche e penali, riduzione delle tutele del mercato del lavoro e delle tutele sociali e, attraverso la celebrazione moraleggiante della “responsabilità individuale” si approda alle guerre “umanitarie”. Il tutto va di pari passo con la sistematica dissoluzione dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici, con la precarietà, con carichi di lavoro disumani, con il controllo/vigilanza sul luogo di lavoro , con la caccia ai sindacati non allineati, con la rimessa in discussione del diritto di sciopero, con la totale flessibilità dell’orario di lavoro. E’ un progetto insieme ideologico ed economico. La fase attuale del capitalismo ha la sua principale caratteristica nell’offensiva degli Stati Uniti tesi ad assoggettare con ogni mezzo a disposizione tutte le potenze amiche e/o rivali. Ottenere, a tutti i costi, il dominio egemonico, è, per gli USA, un imperativo imposto dalle condizioni oggettive al fine di superare la spaccatura strutturale tra capitale transnazionale e Stati nazionali. Da qui, l’attacco all’Europa che ha le radici profonde nel disprezzo della democrazia e dello Stato sociale inscritti negli Stati europei e che, oggi, si basa sulla necessità di impedire la coesione dell’Europa, di sgretolarne la moneta ed il mercato unico. Infatti , Henry Kissinger, in un discorso intitolato “L’anno dell’Europa”, consigliava agli europei di esercitare le loro “responsabilità regionali” nel quadro globale di un “ordine mondiale” determinato dagli Stati Uniti. Ogni soluzione indipendente era, dunque, già condannata.

Strumento principe della politica di espansione militare è la Nato, trasformata in esercito  di aggressione sotto comando USA . Legare l’Unione Europea alla Nato senza nominare gli Stati Uniti è fare un’operazione di pericolosa mistificazione, dato che l’Europa è sotto il dominio militare e culturale degli Usa. La Germania è piena di basi militari e l’Italia è una portaerei  americana. E il TTIP sarà il colpo di grazia a qualsiasi tentativo di autonomia da parte dell’Unione Europea.

E, allo stesso tempo, dire che quello in atto è uno scontro tra varie potenze imperialiste, significa confondere l’aggressore con l’aggredito, dimenticare che l’accerchiamento alla Russia è opera statunitense e noi sappiamo che quando si mette sullo stesso piano chi aggredisce e chi è aggredito significa stare dalla parte del più forte.

E pensare che il governo Renzi  abbia un’autonomia decisionale rispetto agli Stati Uniti è altrettanto pericolosamente mistificante perché è proprio il PD a rappresentare e a naturalizzare il neoliberismo nel nostro paese e ad essere portatore del modello americano. L’aggressione alla Libia del 2011 è stata fortemente voluta dal PD e dall’allora presidente della repubblica Giorgio Napolitano benché fosse chiaro che era assolutamente contro gli interessi italiani.

Renzi non è altro che un governatore incaricato dagli USA di una  colonia che si chiama Italia.

Il neoliberismo, questa nuova società che si proclama “moderna” si basa su una serie di opposizioni e di equivalenze che si sostengono e si rispondono a vicenda per descrivere le trasformazioni della società “avanzata”, attraverso una “retorica” a cui i governi ricorrono per giustificare la loro volontaria sottomissione ai mercati finanziari. In questo modo, gli Stati Uniti impongono al resto del mondo categorie di percezione analoghe alle loro strutture sociali, rafforzando, così, le pretese universalistiche. Attraverso il ragionamento binario, costruito compiutamente, l’ alternativa è fra essere individui, partiti, Stati “democratici” e “capitalistici” nella versione “americana” oppure “comunisti”, “terroristi”, “islamici”.

Per questo non nominare nelle mobilitazioni contro la guerra il ruolo, l’essenza, la strategia statunitense significa non riconoscere chi è il nemico principale e paradossalmente consegnarsi mani e piedi proprio alla guerra.

Trasmissione del 2/3/2016 "Calibano e la strega-Intervista a Silvia Federici""

Data di trasmissione
Durata
 
Immagine rimossa.” I Nomi delle Cose” /Puntata del 2/3/2016 ” Intervista a Silvia Federici”

” Perché dopo cinquecento anni di dominio del capitalismo, all’inizio del terzo millennio, la figura del proletario è ancora quella del povero, del fuorilegge e della strega? Che rapporto c’è tra l’esproprio della terra, l’impoverimento di massa  e il continuo attacco alle donne? E che cosa possiamo apprendere sullo sviluppo del capitalismo, passato e presente, se lo analizziamo nell’ottica privilegiata di una prospettiva femminista?” Silvia Federici <Calibano e la strega>Mimesis 2015

Immagine rimossa.

 

Desmonautica del 24/2/2016 "La difficoltà di avere difficoltà"

Data di trasmissione
Durata
“Desmonautica“ la rubrica di Denys ogni ultimo mercoledì del mese.  “La difficoltà di avere difficoltà”

https://coordinamenta.noblogs.org/post/2016/02/27/la-difficolta-di-avere-difficolta

 

Ho difficoltà a fare molte cose.

Non so condividere i miei spazi, non senza impazzire. Non so cominciare e finire le cose con facilità. Non me la cavo granché col linguaggio del corpo e le sottili implicazioni emotive dei messaggi sottintesi. Non sempre riesco a comunicare a voce, e anche quando posso, avverto un enorme peso nel tradurre le mie immagini in lessico intellegibile. Non posso tollerare  i programmi stravolti di punto in bianco. Non so gestire più di un impegno al giorno, massimo due, per le mie energie limitate e per via dell’angoscia e del disorientamento che mi porta la gestione simultanea o sequenziale delle mie istanze quotidiane. Non esco molto di casa perché mutare spesso ambientazione mi stressa molto. Non ho realmente idea di come ci si faccia delle amicizie, o di come si manutengano i rapporti umani: devo i miei residuati di socialità a tutte quelle persone che fanno lo sforzo di perseguire la mia compagnia. Ho bisogno di fare tutto sempre allo stesso modo e di obbedire a piccole e grandi compulsioni utili e inutili che non sono dettate dallo sfogo di un’ossessione ansiosa ma da un’innata, non estirpabile, tendenza alla routine, e non posso non ammettere che mi sento a disagio nel continuare questo paragrafo rompendo lo schema che mi fa iniziare le frasi con un bel non. Ho dei sensi che funzionano in modo intenso e bizzarro, offrendomi la capacità di causarmi disgusto fino al vomito di fronte a molti sapori e consistenze; sentirmi benedetto sulla terra per le deliziose, friabili onde sonore di tarallo masticato sull’autobus dalla passeggera dietro di me; scoppiare in una immensa crisi di rabbia notturna graffiandomi le braccia e sbattendo la testa contro il mobiletto del bagno per via della irritante frequenza dei miei che russano e dell’insopportabile nenia di slinguazzamento che fanno i gatti nei loro riti di toelettatura, poiché dormiamo nella stessa stanza da vent’anni con buona pace del mio ineluttabile bisogno di privacy; avvertire la benché minima variazione di temperatura dunque non riuscire a tenere in mano una tazza moderatamente calda e ciononostante uscire spesso di casa con un abbigliamento inviso a ogni briciolo di buonsenso meteorologico, sudando a fiotti o sfidando la morte per ipotermia con gagliardo sorriso futurista e mani cianotiche. Regolare amministrazione autistica.

Molto tempo fa mi sono accorto di queste difficoltà senza accorgermene davvero. Ho assunto presto la consapevolezza che la mia percezione non corrispondeva alle percezione delle persone che incrociavo. Non che sia poi così difficile quando chiunque ti fa notare che una buona parte dei tuoi modi di fare e d’essere sono per così dire inappropriati, fuori luogo, strani. Dove non sono arrivato io con arguto dedurre, c’è arrivata la pressione sociale con le persuasive argomentazioni della persecuzione fra pari; anche fra dispari, vista l’annosa abitudine delle persone dotate di un potere ad abusarne. Lezione appresa. Diverso non si può, trovarsi in una brutta situazione è un crimine imputabile anche se non è un crimine e anche se non è stato commesso. I bravi bambini obbediscono. Io ho obbedito. Per fortuna ho quasi smesso, ora consumo solo mezzo pacchetto al giorno.

Questo livello di realtà colora tutta la mia vita, il mio stare nel mondo, come anche il cambiarlo. Lo spazio e l’agire tradizionale della politica extraparlamentare – ma anche di quella parlamentare,  la quale però non ho mai vissuto e praticato, e mai accadrà – consiste in un insieme di implicite regole sociali le quali per lungo tempo ho tentato di capire e assecondare, inutilmente, quali diplomazie, narcisismi, bisogni d’appartenenza, omologazione, idiosincratiche intollerabilità di vario genere. La peggiore pretesa è però la straziante richiesta di abdicare la propria persona in favore di un’abnegazione totale, noncurante delle priorità, delle limitazioni e delle necessità individuali e sociali, figlia quell’idea assurda e reazionaria che è l’indipendenza: essere isole, che si sanno bastare da sole o che in questo modo amano raccontarsela; questa indipendenza, che non rappresenta le abilità legate all’autonomia personale, ma il cerotto  applicato su quell’esigenza palpabile che sono i nostri rapporti di interdipendenza reciproca, in termini di affetto, di cura, di soddisfacimento dei bisogni più e meno elementari; viene chiesto insomma di favorire fatica e intelletto a un gruppo, un collettivo, una rete – esattrici di lavoro emotivo che non ne restituiscono altrettanto – che sì, fornisce una forma primitiva, grossolana e distruttiva di supporto, ma soltanto a chi possiede la possibilità e la pazienza di farne porta e soltanto a costo di distruggerl* pian piano, spogliandol* infine del diritto alla sopravvivenza in nome di qualcosa di più grande, così grande da inghiottire contraddizioni, idiosincrasie, umanità. Che libertà è mai questa? Che giustizia porta con sé?  La libertà di farsi tiranneggiare da una comunità terribile, più fascista di quella che ci mette i piedi in testa di solito. La giustizia, quella delle forche.

 

Sono qui, diversi anni dopo, a fare i conti con quei lasciti, con l’eredità sostanziale della mia storia e delle mie peculiarità metà neurologiche, metà esistenziali. Stavolta ho con me dei fortunati incontri, una sviluppata capacità di scomporre ai minimi termini le verità che mi vengono proposte, una scarsissima pazienza per le stronzate. Sono capace, oggi, di difendere il bambino che ero e quello che c’è ora nell’uomo che sono: disincantato, umorista, consapevole, un pizzico stronzo, eppure così ostinato in una volontà sconfinata di cercare e offrire tenerezza. La vulnerabilità è un bene incedibile che si tiene in salotto per tutta la vita, un grazioso soprammobile. Non è un compito semplice prendersene cura. Quando mi serve aiuto, e mi serve, non so chiederlo mai e anzi mi accartoccio su me stesso, m’isolo e taccio. Questa è la difficoltà di sentirsi in difficoltà: avere bisogno di aiuto e non sapere come, se, quando chiederlo, a partire dalla posizione più scomoda che si possa assumere che però è l’unica possibile: o si chiede aiuto, o si continua a soffrire. Ma interpellare qualcun* è invitarl* nella mia dimora figurata; nel farlo chiamo implicitamente questa persona a passare di fronte al delicato oggettino di cristallo. Lei potrebbe accorgersi della sua presenza, decidere di toccarlo e farmi fremere nel timore che possa urtarlo, per sbaglio se non per volontà, e farne mille pezzi. Una paura non banale che si mostra nella mia tendenza così consolidata a ironizzare su assurdità, insensatezze, talvolta disgrazie e tenere distanti da sé le spiacevolezze e non averci a che fare. Una strategia ridanciana di stupidità emotiva, e per fortuna non ancora una pessima abitudine che rischia di estendersi ai problemi altri, minimizzandoli. Così ora, quando mi chiedono come va, quella frase curiosa, un’affermazione che sembra una domanda – con tutte le sue aspettative di risposta lineare e affermativa, autoconclusoria: tutto bene, grazie – mi sforzo di rispondere nel modo giusto. Una merda. Perché bisogna sapere che stare male è legittimo e la protesta anche di più. Perché la frustrazione de* singol* sia la rabbia di tutti e tutte.

Trasmissione del 24/2/2016 "La verità attraverso l'immagine?"

Data di trasmissione
Durata
“ La verità attraverso l’immagine?

https://coordinamenta.noblogs.org/post/2016/02/26/podcast-della-trasmissione-del-2422016/

“L’area della comunicazione sociale è l’area della vita sociale.Sul terreno sociale, l’esistenza di un evento è strettamente legata al suo essere comunicato(…)La produzione di falsificazioni,mentre dissimula eventi sociali reali, ne propone una “rimodellizzazione” falsa.E’ vera e propria controrivoluzione che si svolge e si pratica sul terreno dei linguaggi”Memoria collettiva  Memoria femminista “2012

 

Immagine rimossa.<L’immagine-prova e l’immagine di guerra>Incontro con Alessia Lombardini

Immagine rimossa.

 

Barzelletta macabra/ DESMONAUTICA/La difficoltà di essere in difficoltà”

 

La Parentesi del 24/2/2016 "Barzelletta macabra"

Data di trasmissione
Durata

https://coordinamenta.noblogs.org/post/2016/02/25/la-parentesi-di-elisabetta-del-2422016/#more-7973

 
Immagine rimossa.“Barzelletta macabra”

Gira in rete una barzelletta macabra che dice che Equitalia prende ai ricchi per dare ai poveri e che pagando le tasse si incrementerebbe lo Stato sociale.

Peccato che questi bontemponi che la raccontano, non sappiamo quanto in buona fede, dimentichino i toni trionfalistici con cui i dirigenti di Equitalia sciorinano i sempre nuovi traguardi raggiunti nell’esazione delle tasse. Ed altresì omettano di ricordare che quando non c’era Equitalia e non c’era una pressione fiscale così rapace, lo Stato sociale, invece, c’era e, per certi versi, funzionava.

Dai dati ufficiali al febbraio 2016, risulta che negli ultimi venti anni i tributi sono quasi raddoppiati, crescendo del 92,4%. Le tasse locali, tra il 1995 e il 2015 sono passate da 30 miliardi a 103 miliardi di euro con una crescita pari quasi al 250%. Nello stesso periodo le tasse centrali sono passate da 228 miliardi di euro a 393 miliardi, con un aumento del 72%. Solo dal 2011 al 2015 le imposte sugli immobili sono cresciute del 143%.

Lo Stato sociale, però, è stato smantellato pur in presenza di un rastrellamento fiscale ben più cospicuo per cui, evidentemente non è il risultato del prelievo fiscale, bensì è il frutto di una combinazione fra scelte politiche e lotte. E siccome, sempre i buontemponi della barzelletta di cui dicevamo, sembrano essere preda di amnesia totale, fanno finta di non sapere che le maggiori entrate fiscali andranno ai militari, alle missioni all’estero, alla Nato e agli apparati repressivi e di controllo che, bontà loro, si chiamano magistratura e forze dell’ordine. Naturalmente con il corollario dei finanziamenti pubblici ai partiti e alla stampa di regime.

Sono gli stessi che raccontano che c’è la crisi e che, per questo, dobbiamo stringere la cinghia, dimenticando che i miglioramenti in ogni campo in questo paese sono stati ottenuti in concomitanza con le lotte degli anni ’70 dove pure c’era l’ennesima crisi del petrolio per cui gli italiani andavano a piedi, il ministro di turno si faceva fotografare in bicicletta, salvo salire subito, a telecamere spente, sulla macchina di servizio, e la televisione ci raccontava quanto era bello riscoprire i cavalli e le passeggiate salutari.

Ma, ora, non c’è nessuna crisi, o meglio c’è un forte impoverimento di tutti sociali colpiti dal neoliberismo, impoverimento che è una vera e propria scelta ideologica del capitale in questa fase che mira a ridefinire i rapporti di forza sia all’interno della classe sia con le classi subalterne.

Il numero di poveri/e si allarga sempre più e sono sempre più poveri, gli occupati diminuiscono, i contratti a tempo indeterminato sono un privilegio, i liberi professionisti devono indossare l’abito divisa e lavorare come impiegati nei grandi studi, i quali a loro volta si concentrano e diventano succursali di multinazionali che si occupano di tutto, dalla pornografia  all’ecologia, dall’architettura  alle questioni legali. I dettaglianti sono destinati a scomparire, la grande distribuzione li farà fuori tutti. I lavoratori e le lavoratrici se ne facciano una ragione, sono stati turlupinati dai sindacati e dai partiti socialdemocratici, non avranno più l’orgoglio di essere operai/e.

Hanno venduto la primogenitura in cambio di un piatto di lenticchie.

Le proletarie torneranno a fare le collaboratrici domestiche contendendo il poste alle migranti. Vi ricordate quando si diceva che le migranti e i migranti facevano i lavori che le italiane e gli italiani non volevano fare più?. Tantissime donne sceglieranno la prostituzione, con buona pace dei moralisti e delle moraliste d’accatto che le giudicano o le vogliono salvare, mentre dimenticano che è un lavoro come un altro solo che non ha bisogno di laurea, curriculum e investimenti.  La piccola e media borghesia scompariranno, saranno drenati i loro risparmi e dovranno vendere la seconda casa e poi anche la prima. Ai pensionati/e  spetterà la dignitosa povertà, un vestito d’inverno e uno d’estate. Rivedremo tante persone senza denti, si allargherà la platea di quelli che chiederanno l’elemosina, di quelli che andranno ad abitare nei campi nomadi che tanto nomadi non sono perché la presenza degli italiani è numerosa e i bambini i cui genitori non pagheranno la mensa scolastica guarderanno i più fortunati mangiare, ritorneremo alla coabitazione.

In definitiva la popolazione  sarà gettata nella disperazione, e i media e la televisione, gli sceneggiati e i film commissionati ad hoc ci racconteranno un’Italia che non esiste. Realizzeremo così il modello americano: il paese più criminale di questo mondo e il popolo più disperato senza stato sociale, senza copertura sanitaria, dove la casa di proprietà o vivere una serena vecchiaia è un sogno irrealizzabile, dove non esiste contratto lavorativo nazionale e sistema pensionistico.

Il neoliberismo è la realizzazione della società americana. Conosciamo quello che ci aspetta, non dobbiamo fare dotte analisi, ce l’abbiamo sotto gli occhi. Saremo tutte/i  controllate/i come quegli animali che si credono liberi e hanno invece il cip sulle orecchie e  sono ripresi e ascoltati in ogni momento della loro vita.

Una situazione insostenibile  dove l’unica possibilità di sfogo è la guerra al vicino di casa, la rabbia verso il migrante, la guerra ad altri disperati/e che culmina poi nello sparare al dirimpettaio o ai colleghi sul luogo di lavoro oppure ai primi che incontri per strada.

Questo per la popolazione tutta, mentre quelli che lavoreranno direttamente per il sistema avranno il rango  di animali da cortile.

E’ un ritorno a tutto campo alla società ottocentesca dove la povertà è un crimine e il povero  un delinquente.

Dobbiamo domandarci perché tutto questo è successo negli Stati Uniti e sta succedendo anche da noi, altrimenti ci ritroveremo senza possibilità di lottare.

E’ necessario scardinare i concetti di legalità, di gerarchia, di meritocrazia, rifiutare la militarizzazione del proprio territorio e l’aggressione ai popoli del terzo mondo. Guardare con disprezzo quei disonesti intellettualmente che ci raccontano che la legge è al di sopra di tutto, che le istituzioni difendono tutti mentre, di volta in volta, scoprono una categoria sociale da demonizzare e contro cui scatenare la canea sociale, che ci raccontano che con il merito si va avanti, che i più capaci e meritevoli saranno premiati. La variante italiana che il venditore di noccioline può diventare presidente degli Stati Uniti

Renderci conto che il patto sociale è stato rotto in maniera unilaterale da chi detiene il potere e che quindi noi non dobbiamo più nulla a questo Stato, men che meno le tasse di qualsiasi tipo siano e qualsiasi tipo di balzello, dobbiamo rifiutare qualsiasi tipo di controllo, almeno assumerci il coraggio di dirlo, diffondere  alterità e difendere sempre chi si ribella a questo sistema.

Detta così potrebbe sembrare una bella petizione di principio, uno sciorinare idee difficilmente realizzabili.

Invece è più semplice di quanto si possa pensare perché tutte e tutti noi abbiamo cervello per pensare, occhi per vedere e possibilità di prendere posizione.

Tutte e tutti noi, tutti i giorni, ci troviamo di fronte a situazioni in cui possiamo intervenire.

Togliere ogni valenza politica alle lotte e ridurle a situazioni delinquenziali è lo strumento messo in atto dal potere.

E’ da lì che dobbiamo ricominciare, dagli appuntamenti politici: chiudere Equitalia, chiudere i covi del PD, uscire dalla Nato.

 

Trasmissione del 17/2/2016 "Fimmene Fimmene""

Data di trasmissione
Durata
“ Fimmene Fimmene hanno suonato per noi e per voi dal vivo ai microfoni di ROR!

“FIMMENE FIMMENE/alessandra di magno, irene guarrera, silvia pierattini, nicoletta salvi, alessia sibilla  si raccontano e ci raccontano”

 

La Coordinamenta verso l’8 marzoImmagine rimossa. Siamo tutte prigioniere politiche!

 “Il femminismo non può abbandonare mai la lotta di liberazione che è possibilità di comunicare, di dare voce a tutte le lotte del presente come del passato e alle loro ragioni. E’ portare fuori ogni lotta dall’ambito riduttivamente femminile, è vanificare così tutti i tentativi di ghettizzazione. E’ smascheramento dei codici linguistici del potere che costituiscono la rete essenziale del controllo sociale. E’ la capacità di investire tutti gli aspetti della vita: dal lavoro all’eros, dai sogni ai linguaggi quotidiani, dalla politica all’arte…. E’ rivoluzione totale.”

ATTI/Memoria collettiva Memoria femminista-2012

Immagine rimossa.

La Parentesi del 17/02/2016"Mistificazioni neoliberiste"

Data di trasmissione
Durata
“Mistificazioni neoliberiste”

 

Immagine rimossa. Il 15 gennaio scorso è stato varato dal Consiglio dei Ministri il decreto legislativo sulle depenalizzazioni che prevede che una serie di reati non rientrino più nella casistica penale, ma vengano sanzionati amministrativamente. Nei vari commi di legge per i comportamenti in questione viene sostituito al termine “è punito” il termine “è soggetto alla sanzione amministrativa pecuniaria”. Si tratta di illeciti svariati che vanno da reati cosi detti “Contro la fede pubblica” e cioè, per esempio, uso di atto privato falso, falsità in scrittura privata a quelli “Contro la moralità e il buon costume”, da quelli in “Materia di Previdenza” come omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali a quelli in “Materia di circolazione stradale” come la guida senza patente, solo per citarne alcuni e varrebbe la pena che ognuno/a se li andasse a leggere tutti.
In questa casistica estremamente varia è contemplato anche il reato d’aborto, cioè l’aborto fuori dalle regole imposte dalla Legge 194/78. La Legge 194/78 prevede la possibilità di aborto solo se viene seguito un percorso obbligatorio amministrativo e medico e solo nelle strutture pubbliche. Se la donna che vuole abortire non segue questo percorso e se non lo fa nelle strutture pubbliche, fino all’altro giorno, la trasgressione era penale. A seconda della gravità della trasgressione era prevista la multa fino a centomila lire, vale a dire 51 euro, o la reclusione fino a sei mesi. Ora le regole e il percorso sono rimaste le stesse, ma la trasgressione è stata depenalizzata e soggetta a multa da 5 mila a 10 mila euro.
Detta così sembrerebbe una buona cosa. Invece no, perché non intacca assolutamente lo spirito della legge. L’aborto, che dovrebbe essere libero, continua ad essere permesso solo secondo il percorso e i dettami della norma che, per inciso, non funziona affatto perché abortire nelle strutture pubbliche è un terno al lotto visto l’altissimo numero di obiettori di coscienza, nel Lazio l’80%, ma con l’ introduzione di una multa così alta si attua un ulteriore filtro fortemente classista. Tutto quello che passa attraverso il denaro è una discriminante di classe e, quindi, dato che la possibilità di abortire delle donne delle classi subalterne in strutture pubbliche è estremamente limitata, queste non potranno più abortire con il fai da te o, meglio, dato che necessariamente continueranno a farlo ,non andranno neppure in ospedale in caso di complicazioni per non prendersi anche la salatissima multa.
Quindi è evidente la mistificazione portata avanti da questa cosi detta depenalizzazione che si configura in maniera evidente come una forma di controllo poliziesco e di classe estremamente forte.
Ma non è un decreto infelice o mal riuscito, fa parte di una modalità specificatamente neoliberista di affrontare il sociale.
Fa parte di questa tendenza anche la spinta ad una riforma carceraria sempre più tesa a sostituire per molti reati la detenzione in carcere con misure alternative.
I richiami della Corte europea dei diritti dell’uomo all’Italia che focalizzavano l’attenzione sul sovraffollamento, sulle condizioni igieniche precarie, sulla mancanza di aree di socialità o cortili per l’aria, hanno costituito la chiave per un cambio di indirizzo politico che dovrebbe prevedere un maggiore ricorso alle pene alternative e sostitutive della carcerazione che non è solo italiano, è un indirizzo di tendenza nei paesi occidentali.
Anche qui, detta così, sembrerebbe una buona cosa. Invece no. Certo, stare fuori è meglio che stare in carcere, ma questa disponibilità del sistema neoliberista nasconde una strategia di controllo sociale devastante.
Se a un detenuto/a viene concesso di “espiare” la pena a casa, al lavoro, nei servizi sociali o in una qualunque configurazione esterna, la sua vita sarà per legge soggetta a controllo e anche quella dei familiari, dei datori di lavoro, dei colleghi, di tutte e tutti quelli che sono con lui/lei in relazione . In questo modo è possibile mettere in atto un controllo sociale serrato sul territorio e addirittura costringere il territorio ad autoregolarsi. Ognuno/a diventerà controllore di se stesso e degli altri.
Così il cerchio è chiuso, la vita è diventata un carcere e chi si vuole sottrarre è molto più individuabile, circoscrivibile e neutralizzabile.
La partecipazione alle manifestazioni, l’impegno politico, i tentativi di organizzarsi in lotte sociali contro la mancanza di alloggi, il caro scuola, la disoccupazione.. sono sanzionate amministrativamente con multe salate con il chiaro intento di dissuadere da subito chi può avere intenzione di portare avanti una qualsivoglia lotta.
Le persone non solo sono sottoposte ad un forte controllo poliziesco ma dovrebbero imparare ad autocontrollarsi, controllare gli altri/e e piegarsi ad un asservimento volontario.
Possiamo solo autorganizzarci e tagliare i ponti con questa impostazione sociale, rifiutare il coinvolgimento, rifiutare ogni collaborazione, smascherare i veri obiettivi che sono sempre ammantati da nobili motivazioni.
Siamo tutte e tutti detenuti politici.

Trasmissione del 10/2/2016 "Il patriarcato è un modello economico "

Data di trasmissione
Durata
"Nomi delle Cose” /Puntata del 10/2/2016 “ Il patriarcato è un modello economico

La coordinamenta verso l’8 marzo

 

Immagine rimossa.

 Lottare solo contro l’ideologia, la mentalità, la cultura patriarcale senza mettere in discussione i meccanismi che la perpetuano, è insufficiente se non fuorviante. Non trasformando i rapporti di produzione capitalistici iscritti nei processi di lavoro, questi riproducono continuamente tutti i ruoli della divisione sociale capitalistica, tutti i ruoli degli apparati politici e ideologici patriarcali” ATTI/ Il personale è politico-Il sociale è il privato- 2012/ Attualità femminista/Falsa immagine/Ricominciare da tre –Il Patriarcato è un modello economico"

La Parentesi del 10/2/2016 "Falsa immagine"

Data di trasmissione
Durata

https://coordinamenta.noblogs.org/post/2016/02/11/la-parentesi-di-elisa…

 

“Falsa immagine”

Immagine rimossa.

Il patriarcato è un processo di sovranità, non c’è peggiore mistificazione che considerare il patriarcato capace di autoregolazione. E’ sempre un rapporto tra chi comanda e chi obbedisce.

Che cosa è il femminismo? assumere il rapporto patriarcale non come concluso e definito, ma come rapporto di forza che di volta in volta si modifica sulla base della lotta, dei modi della lotta e pertanto delle figure della progettualità.

Più precisamente l’analisi femminista oggi si scontra con il ruolo delle patriarche. Queste nella nostra stagione quando la vita intera è sussunta nel capitale e la valorizzazione dello stesso è prodotta da una società messa al lavoro con una femminilizzazione che caratterizza tutto il rapporto produttivo e lo sfruttamento tipico della società patriarcale, si diffondono sull’intero tessuto sociale. E’ a partire da questo momento che la condizione femminile si trasforma perché non riguarda più solamente la condizione materiale femminile ma anche le dimensioni dei soggetti produttivi socialmente.

Patriarcato e patriarche vivono in simbiosi. I disastri di questo connubio, di questa costituzione materiale, sono sotto gli occhi di tutte. Guerra di poche elette contro la stragrande maggioranza delle donne e degli oppressi tutti.

E questo passare, armi e bagagli, dalla parte del patriarcato corrisponde all’esigenza che lo stesso ha di spezzare le lotte della “classe donne” strumentalizzando la parola femminista. Si è data la stura ad una strana situazione, ambigua, perversa, ma prepotente e violenta che consiste da parte del patriarcato nello spostare i limiti, le forme e gli spazi del suo essere e del suo comando.

Da qui la necessità, il desiderio di ogni donna sfruttata, derisa, umiliata nella stagione neoliberista. I processi di disciplinamento delle donne con i metodi tradizionali lasciano ora spazi a nuove, diffuse e ramificate strutture di controllo. A questo punto diviene fondamentale il problema di come resistere, ribattere e riprendere l’iniziativa contro il nuovo assetto patriarcale nella stagione che questo ha cooptato chi per tornaconto personale o di ceto si è venduta. Il femminismo non è stato sconfitto, né riassorbito nelle dinamiche neoliberiste, è un insieme di singolarità che lottano contro il potere neoliberista e patriarcale che cerca di trovare nuove mitologie di coesione e di identificazione.

Il femminismo, come negli anni ’70, è un’affermazione di singolarità che si riconoscono in una lotta collettiva, è una forza di metamorfosi sociale e antropologica, è una concezione militante e creativa, non è solo un nuovo modo di vivere, anche se lo è, ma è soprattutto produzione di soggettività politica che si può realizzare solo producendo libertà.

Dentro il processo neoliberista che ha prodotto l’alleanza tra patriarcato e patriarche siamo tutte povere, vale a dire siamo tutte nelle mani di un potere che ci fa regredire e ci rende completamente asservite ad uno sfruttamento totale e a tutto campo.

Le patriarche mettono in atto un meccanismo per cui presentano l’emancipazione come il femminismo realizzato e concretizzato proprio nella loro posizione di privilegio al servizio del potere, e, allo stesso tempo, dietro questo specchio che riflette una falsa immagine lavorano per il neoliberismo. Approvano e sponsorizzano leggi che mettono sul lastrico tutte le altre donne togliendo loro indipendenza economica e possibilità di scelte autonome, attivano e sollecitano una legislazione securitaria e di controllo che rende la vita militarizzata, contrabbandando per sicurezza quella che invece è cultura dello stupro, promuovono la denuncia d’ufficio, togliendo quella che è la base di ogni scelta di autonomia non solo nostra ma di ogni soggettività, predicano l’antirazzismo e promuovono invece politiche di discriminazione avallando tutto le scelte che riguardano le politiche neocoloniali e di aggressione ai paesi del terzo mondo e la colonizzazione di interi territori interni, impostando così gerarchie di razza e di classe che rafforzano le gerarchie di genere in tutta la società, vanno a braccetto con chi sul fronte interno ed esterno pratica l’aggressione militare ed armata togliendo la discriminante antifascista, sponsorizzando gli USA, cavalcando gli opposti estremismi, dichiarandosi pacifiste e democratiche e arrogandosi così il diritto di essere loro ad esercitare violenza.

Coltivano i servizi sociali e l’associazionismo connotandolo con caratteri polizieschi e dietro l’ipocrisia della tutela ai minori puniscono le donne refrattarie a questo ordine sociale. Propagandano come positivi i ruoli delle donne nelle istituzioni repressive e di controllo cercando di farci dimenticare che le “tendine rosa” coprono un doppio tradimento, sempre quello di genere e quasi sempre quello di classe.

E il loro essere donne ed essere parte integrante della socialdemocrazia riformista mette in difficoltà e ricatta chi vuole contestare loro tutto questo.

Ma l’essenza, lo spirito e l’esperienza delle nostre lotte ci permette di diventare adulte sperimentando l’esercizio della verità. Il nostro essere femministe si realizza attorno alla possibilità di imporre una misura, un argine, una figura alternative alla miseria e alla tristezza di questo mondo.

La costruzione del femminismo dà voce a tutte le espressioni dell’esistente e riesce a rivelarle. Per questo smascheriamo il modello neoliberista di democrazia, di liberazione che si presenta e si definisce come corruzione delle singolarità. Battersi per la libertà è l’orizzonte verso il quale il femminismo si indirizza.

Si tratta di praticare un’interazione continua di singolarità, di antagonismo e di progetto costituente.

Il patriarcato impone la guerra alle donne come fondamento di ogni ordine politico utilizzando le patriarche come ascari. Da qui la necessità della guerra alla guerra.

Le patriarche non sono nostre sorelle, stanno dall’altra parte della barricata.

Il patriarcato ci fa la guerra, non dobbiamo credere alle sirene che ci raccontano di una pace illusoria. Il femminismo è trasmutazione vitale della condizione di morte delle donne che ci è comunemente imposta, è creatività di affetti, di relazioni, di militanza le cui intensità sono irriducibilmente singolari e plurali.

 

Desmonautica del 27/1/2016 "Note di politica trans"

Data di trasmissione
 
Da “I Nomi delle Cose” del 27/1/2016 “Desmonautica“ la rubrica di Denys ogni ultimo mercoledì del mese.

Ci scusiamo per il ritardo nella pubblicazione del contributo dovuto a disguidi tecnici

“Note di politica trans, ovvero l’importanza di avere delle priorità”

(…)Un famoso barbuto tedesco che non ha bisogno di essere citato disse che la storia è la storia delle lotte fra classi, e io sono abbastanza ideologicamente fuorimoda da essere d’accordo. Ma aggiungo che la storia è una conversazione dove ti interrompono spesso. I discorsi di chi pretende libertà sono quelli che appena cominciano si toglie l’audio. È quel genere di situazione dove bisogna imparare ad alzare la voce; io sono qua perché sento intimamente la responsabilità di rimanere abbastanza tignoso da continuare a tenere il volume alto. Sono piuttosto fiducioso di riuscirci, perché sono virtualmente incapace di modulare la mia voce in tonalità non moleste.

Immagine rimossa.

Ora, molti interventi come questo cominciano con lunghi antefatti sul proprio percorso. Ma siccome io ritengo d’essere un uomo relativamente banale, e non è che la cittadinanza di maschio d’adozione cambi granché le cose, vi evito questa noia. Sì, ok, sono nato femmina, la cosa mi deprimeva a morte, blablabla, testosterone, blablabla, e ora ho l’acne, i peli e la gioia di vivere. Ordinaria amministrazione, gente! Una cosa ve la dico, però: sono bisessuale. A essere pedanti, anche questa è una descrizione sommaria, ma amo semplificare il semplificabile. Forse ritenete superfluo parlarne, ma per me è politicamente importante ribadirlo: non sono un attivista trans. Sono un attivista trans e bisessuale. C’è tutta la differenza del mondo in questa sottigliezza. Poi sono anche molte altre cose, ma questa è un’altra storia che intendo raccontare altrove.

Veniamo a noi. Se ho dato un preciso titolo a questo intervento è perché penso all’importanza, per un movimento, di definire strategicamente le sue priorità. Spesso pensiamo male, malissimo del concetto di priorità, perché una coltre di gente a dir poco discutibile ne distorce il senso. L’accezione che conferisco a questo termine non è quella che loro utilizzano. Non solo credo che le priorità di un privilegiato siano differenti da quelle di chi privilegiato non è, ma credo anche che la posizione di privilegio strutturale (sociale ed economico) e sovrastrutturale (cioè culturale) plasmi il concetto stesso di priorità. Quando questi soggetti parlano di priorità, non parlano di definire le priorità atte a mandare avanti, in senso positivo, un progresso politico. Nei loro discorsi la priorità è un artifizio che usano per nascondere il fatto che per loro, priorizzare, non è organizzare coscientemente le istanze al fine di portarle avanti con dei risultati, i migliori possibili; è posizionarne alcune sopra le altre in un’ottica escludente e distruttiva, anti-propositiva, e infine del tutto reazionaria.

Voglio essere chiaro: ogni parola che dico non intende in nessun modo sminuire chi dirige i suoi sforzi in altri luoghi, ma mi pare il caso di fare presente dove invierei maggiori attenzioni. Qui ritornerei all’affermazione per cui il personale è politico. Questa frase porta con sé almeno tre livelli di significato diversi. Il primo è teso ad evidenziare quanto alcuni aspetti delle nostre vite, apparentemente innati e naturali, siano in realtà socioculturalmente determinati. Il secondo è quello che ci rende nota la parzialità del nostro percorso esistenziale individuale, che in realtà è ingranaggio di un meccanismo collettivo, condiviso e complessivo. Il terzo, forse meno autoevidente degli altri, è questo:

parlare di personale che diviene politico mette in luce anche la materialità del quotidiano. Personale infatti non è solo una forma mentis e una direzione presa, ma anche un bisogno che abbiamo mentre lo proviamo. Questo è esattamente il punto: la nostra priorità credo risieda proprio qui, nel perseguire il soddisfacimento dei nostri bisogni materiali condivisi qui ed ora, senza più aspettare. Spesso come attivista trans mi capita di sentire lamentarsi altri attivisti ed attiviste del fatto di non essere presi in considerazione dal resto della comunità. Per quale motivo credete che questo accada? Esiste una cosa che si chiama piramide dei bisogni, in fondo ci sono basilari necessità di sopravvivenza. Soddisfatte quelle, si sale di un gradino e si può pensare al livello di astrazione del piano di sopra. Sapete cosa? La maggior parte della comunità trans non riesce a soddisfare il gradino base. Perciò se vogliamo costruire un movimento abbandoniamo l’illusione che la maggior parte delle persone possa volersi occupare di qualcosa di diverso da quello: la maggior parte delle persone non sono così masochiste da volersi occupare di dibattiti che le riguardano in modalità esclusivamente tangenziali. Abbandoniamo anche la pretesa di definirci e rimanere controcultura. Farlo significa voler rimanere nell’angolino a vantarsi di essere anticonformisti a vita, è ribellismo adolescenziale fuori tempo massimo. Noi dobbiamo diventare cultura, e basta. Non esiste un cambiamento che non passi attraversi questo. Siamo egemonici, per la miseria! Perciò, con buona pace di discorsi culturali sull’immagine della transessualità che può fornire l’attrice tal dei tali, o un altro soggetto tal dei tali, discorsi disgustosamente intrisi di politiche della rispettabilità, parliamo d’altro.

Parliamo di studenti trans. Si parla spesso in modo fumoso di diritto all’istruzione, ma qui ci riferiamo a qualcosa di molto concreto. Il nostro diritto all’istruzione è leso dalla nostra posizione economica svantaggiata, dalla pressione sociale, dalla paura della violenza, dal bullismo e dalla mancanza di una normativa che renda possibile attraversare il mondo scolastico con un nome che differisca da quello anagrafico a prescindere dalla modifica o meno dei documenti. Questo talvolta accade, e io mi ritengo fortunato nel poter dire che la mia scuola me lo sta permettendo, ma accade a totale discrezione dell’atteggiamento bendisposto di chi si ha di fronte. Vi pare che si possa contare sulla buona volontà delle istituzioni di assecondare la libertà di genere, in un paese dove è ancora scandalo la pillola del giorno dopo?

Parliamo di adolescenti trans. Faccio ancora parte di una generazione dove la maggior parte delle persone hanno scoperto di sé stesse generalmente dopo i diciotto anni, o in prossimità di quelli. Fra noi non si è posta certo la questione. Con l’avvento di una maggiore informazione esistono però ragazze e ragazzi che hanno modo di scoprire la propria verità molto prima, anche a quindici, quattordici, tredici anni e intendono giustamente transizionare presto. Invece di moralistiche, paternalistiche congetture circa l’eventualità che sia troppo presto perché loro conoscano sé stessi e possano dunque decidere per sé, preoccupiamoci di fornire loro strumenti d’analisi per loro stessi, per il mondo, e ciò che serve a soddisfare le loro necessità. Possiamo evitargli un trauma. Facciamolo. (Faccio notare come nessuno dubiti del grado di autoconsapevolezza dell’eterosessualità e del cisgenderismo degli adolescenti eterosessuali e cisgender).

Parliamo di persone detenute trans. Le galere, italiane e non, sono posti terrificanti dove in barba a ogni genere di mistificazione democratica non si fa nulla di umano o educativo: si tortura, e spesso, si uccide. Aggiungete a questo orribile retroscena le vessazioni che provengono dal violare le convenzioni in un luogo dove non ci si può proteggere. Vi pare che si possa aprire bocca con le manette ai polsi e la mano sul collo?

Parliamo di lavoratrici e dei lavoratori trans, che si vivono a metà o non si vivono affatto per non perdere l’unica fonte di reddito che hanno nel contesto più generale di un’incertezza economica sconcertante, o lo fanno ma sotto mobbing. Mi preoccupo in modo particolare delle lavoratrici del sesso, capro espiatorio di una comunità che ambisce a una normalità che non potrà mai ottenere, e la colpa è soltanto del nostro attivismo normale, accettabile, presentabile, carino, infiocchettato… e paralizzato, perché non ci porta da nessuna parte. Ci si fa un mazzo tanto ad appiattirsi su criteri di normalità, ma i criteri li fanno sempre gli altri, e ce ne terranno sempre fuori, quindi siamo fregati. E i disoccupati? E le disoccupate? Qualcuno ha idea di cosa significhi la compromissione non solo della capacità di mantenersi vivi, ma di mantenersi vivi e felici nel percorso che porta una persona alla realizzazione della persona che essa è?

Parliamo delle persone trans nel loro accesso alla sanità. Nel contesto più generale di una sanità sempre più depauperata di risorse, e le cui prestazioni sono di fatto negate a una serie di soggettività che qualcuno chiamerebbe di marginalità sociale, le persone trans ricevono un danno doppio. Non so se sapete che per esempio, a Roma, è ora praticamente impossibile trovare una struttura del tutto pubblica dove effettuare, in particolar modo, la fase psicologica del percorso di transizione, considerata, ve lo ricordo – a fronte dell’attuale stato dell’arte clinico e burocratico – obbligatoria. La struttura che in teoria sarebbe di riferimento è in sostanza privata, e richiede un gran spesa. Domanda retorica: una persona trans ha questi soldi? Un problema della sanità è quindi ovviamente quello che riguarda l’accesso a prestazioni mediche e psicologiche specificatamente legate al percorso di transizione. Queste non sono affatto garantite, e questo è un problema grosso, grossissimo, per non dire fondamentale. Il problema, peraltro, non è solo quello, in quanto come persone trans, in modo più indiretto, non ci viene garantito neanche l’accesso alla sanità generale. Infatti anche un qualsiasi altro problema di salute diventa per una persona trans un problema di sanità trans, per il truismo lapalissiano che quando si è malati non si smette di essere transessuali. Il personale sanitario tutto è quasi interamente privo di ogni cognizione su cosa sia la transessualità e su come rispettare le persone trans, in particolar modo quelle nella fase delicata e imbarazzante che genera la difformità tra presenza fisica e documenti non aggiornati. (Mi riaggancio un istante al discorso di prima: questo vale per ogni istituzione pubblica che si interfacci con le persone trans, quindi per esempio anche insegnanti, educatori). Inoltre, mi domando quanto le scienze mediche si siano attualmente poste la necessità di pensare una medicina trans, incentrata sulle specifiche esigenze e particolarità di un corpo transessuale. Vorrei fare un breve inciso anche sulla malasanità, ma non ho gli strumenti e le conoscenze necessarie, perciò a questo riguardo vi invito soltanto ad approfondire se non l’avete già fatto le brutte vicende che hanno coinvolto Elena Sofia Trimarchi. Queste che vi ho elencato finora sono solo alcuni esempi di questioni che io, personalmente, mi pongo.

Però capiamoci. La lotta degli studenti trans dev’essere la lotta degli studenti tutti. La lotta per la sanità trans non può esimersi dall’essere parte di una lotta per i diritti dei pazienti in generale. La lotta delle e dei detenuti trans dev’essere parte di un discorso d’insieme sulla realtà delle carceri. Nessuna, nessuna delle nostre lotte si può permettere più di esistere se non così. Non è un suggerimento, è una scelta che dobbiamo fare: solidarizzare o soccombere. E quando parliamo di solidarietà, parliamo di una solidarietà pratica, viva, forte, relazionale: altrimenti non parliamo di solidarietà, parliamo del fantasma delle pubbliche relazioni, un inutile golem da comunicato. Come individui, carissimi miei, carissime mie, non contiamo niente. Perciò facciamo reti, rizomi, prolungamenti, tutto quello che ci pare, ma connettiamoci. Una lotta senza ponti muore settoriale. Questo è, per me, il significato politico più bello e prezioso dell’intersezionalità: non la necessità di fare tuttologia militante ogni volta che si parla di un singolo argomento per sentire l’ebbrezza del politicamente corretto, ma le opportunità sostanziali che essa offre nel creare legami.

Ho parlato per me e per nessun altro, le mie vogliono essere più indicazioni provenienti dalla mia visione del mondo, che non un flusso di logorrea didascalica e onnicomprensiva. Mi auguro di aver ricoperto una qualche utilità e vi ringrazio ancora. Vi lascio un’ultima cosa, una domanda. Oggi discutiamo, domani pure, dopodomani cosa volete fare? Questo è tutto. Ho finito.