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I Nomi delle Cose

Parentesi del 2/12/2015 "Impero e aristocrazia"

Data di trasmissione
Durata 5m 45s
Impero e aristocrazia

Immagine rimossa.   E’ evidente che ci sono tensioni fortissime nel mondo occidentale che scaturiscono dal tentativo, per molti versi riuscito, di costituire un’aristocrazia multinazionale che si propone di imporsi come soggetto contrattuale con la super potenza statunitense. In Europa l’iperborghesia annidata nelle multinazionali sta smantellando le forze sindacali e partitiche che si oppongono al neoliberismo e, quest’ultimo, significa disoccupazione, povertà, annullamento dello Stato sociale, venuta meno della sanità pubblica, del pensionamento generalizzato, della contrattualizzazione del salario. Tutto questo passa anche, necessariamente, attraverso la repressione e una cultura securitaria che colpiscono particolarmente i gruppi politici e le forze sociali che più contrastano il neoliberismo. La repressione, in tutte le sue articolazioni, sottolinea e caratterizza questo momento storico dell’autoespansione del capitale. E la repressione si colloca nello squilibrio fra strutture nazionali statuali e la ricomposizione capitalistica di fondo che è permeata dallo scontro fra multinazionali e Stati per la ricollocazione delle gerarchie capitalistiche che vedono gli Stati Uniti con il loro alleato inglese, all’offensiva e l’unico interlocutore è l’aristocrazia sovranazionale, l’iperborghesia, che vuole portare in dote al matrimonio la “testa” del mondo del lavoro. Il programma di classe oggi passa, oltre che su obiettivi e scadenze di lotta, anche su una valutazione degli equilibri, degli scontri, dei rapporti di forza che lo sviluppo globale presenta. Questa attenzione non è secondaria perché ne scaturisce la possibilità di porre qualche ostacolo alla voracità con cui l’iperborghesia si serve della socialdemocrazia come arma politica. Oggi, ci troviamo di fronte ad una situazione che non è più il lavoro in fabbrica a determinare i rapporti sociali bensì la messa al lavoro della società e, quindi, lo sfruttamento di tutti coloro che nella società sono attivi.

La classe operaia non ha mai amato il lavoro salariato in fabbrica, lavorare in fabbrica era ed è una terribile oppressione, un’esasperazione della sofferenza e dello sfruttamento della vita. Oggi, questo si è dilatato ed è uscito dalla fabbrica e si è generalizzato nella società tutta. Il blocco sociale che ha dominato l’Italia e i paesi occidentali finora si è rotto per scelta unilaterale dell’iperborghesia. Il capitalismo nella stagione neoliberista e la sovranità imperiale nella sua accezione più compiuta, cioè gli Usa come Stato del capitale, hanno bisogno di controllare la nostra intera esistenza a tutto campo anche con riferimento ai desideri e ai modi di vita e questo si sviluppa attraverso determinazioni gerarchizzanti sempre più forti. Pertanto, le guerre umanitarie sono sempre più insistenti e pesanti e non sono altro che modalità di intervento politico.

C’è una diretta correlazione tra la sottomissione dei lavoratori all’interno dei singoli paesi occidentali, tra le politiche di ristrutturazione interna e l’imposizione e la transizione nei paesi del terzo mondo da regimi “totalitari” a regimi così detti “democratici”.

Paradossalmente, ma purtroppo è così, lo scontro è solo nell’ambito del capitale. Si tratta di sapere chi sarà alla guida dell’Impero, se saranno gli americani in quanto nazione o l’aristocrazia sovranazionale. Pertanto, viviamo all’interno di un interregno capitalistico nel quale si svolge una guerra per comprendere chi dovrà governare, quali sono le trasformazioni delle filiere del comando e di ridefinizione delle classi sociali.

Dobbiamo nuovamente dire e riconoscere che cosa sia il potere e che cosa sia lo sfruttamento e su questo versante, possiamo capire chi è il nostro nemico e chi il nostro compagno.

Dobbiamo leggere che cosa sono divenuti i concetti di guerra e pace, di Stato-Nazione, di cittadinanza e diritti, di privato e di pubblico, ed ancora Nazioni Unite e diritto internazionale. E intorno alla consapevolezza di questi nodi, da come prendiamo posizione all’interno del passaggio storico nel quale viviamo, noi siamo in grado di scegliere amici e compagni/e di lotta, noi per i quali la libertà politica, l’amore per l’uguaglianza sociale, la resistenza contro il potere e il rifiuto della povertà camminano insieme.

La guerra che oggi ci è imposta investe la vita di tutti/e e di questo dobbiamo prendere coscienza, passaggio ineludibile per sperare di trasformarla in un movimento di lotta per la liberazione. Non c’è alternativa a questo obiettivo, non è possibile pensare la rivoluzione senza tutti i soggetti che possono contribuire alla sua realizzazione. Dobbiamo rimuovere con forza quella che è una delle caratteristiche del neoliberismo, cioè il concetto che povertà, gerarchia sociale, colonialismo siano una sorta di darwinismo economico-politico che, in definitiva, non è altro che un ritorno all’ottocento. Tanto più in una stagione in cui la guerra è divenuta la base stessa della politica, guerra interna ed esterna.

Da qui la necessità di riprendere le fila dell’analisi di classe a partire dai temi della teoria, della linea, del programma. In definitiva del progetto della rivoluzione.

Non c’è separazione tra economia, mercato mondiale, temi internazionali e rapporti interni agli Stati nazione e, quindi, con le stesse regole dei rapporti sociali di cittadinanza e, in definitiva, di classe.

Nell’impero e intendiamo quello a guida statunitense, aree di mercato organizzate sono auspicabili, ma gerarchizzate dentro e sotto lo sviluppo del comando imperiale. E questo vale anche per l’Europa che è la più importante fra le varie potenze continentali.

Siamo di fronte a una storia di amore e odio fra gli Stati Uniti e l’Europa e quando diciamo Europa è chiaro che l’Inghilterra non ne fa parte. In questa situazione l’iperborghesia europea si scontra con lo Stato del capitale dentro un equilibrio instabile. Questo è il senso della lettura diversa delle sanzioni alla Russia e degli attacchi all’economia tedesca, ammantati da nobili motivazioni.

Da un lato lo Stato del capitale presenta una proposta imperiale unilaterale nel suo progetto di dominio del mondo, dall’altro le iperborghesie europee multinazionali tentano di costruire una relativa indipendenza. Quindi l’Europa si trova oggettivamente collocata su di un terreno che non sempre coincide con gli interessi imperiali statunitensi. E’ su un terreno così pregnante che si può leggere l’attacco americano ai tentativi di quegli Stati europei che tentano di tutelare gli interessi delle loro iperborghesie. L’indipendenza europea all’imperialismo americano non è possibile a livello militare, ma cerca di realizzarsi nel differenziarsi rispetto alle scelte settoriali, ma anche questo è reso difficile dalla minaccia non solo militare, ma anche dalle ritorsioni economiche mascherate da provvedimenti a tutela dell’ambiente, dello sport, del diritto internazionale.

Ad oggi, lo scontro è impari perché la struttura imperiale statunitense non è semplicemente uno spazio geografico, ma costituisce un’unità di potere che si irradia in tutte le sfere e in tutti i paesi e pertanto non è soltanto un ritorno all’ottocento, ma è anche un nuovo feudalesimo fondato sull’azione unilaterale americana  che auspica ed è organizzata per ridurre gli stati nazionali a feudi da dare in gestione alle aristocrazie multinazionali locali il cui compito principale è configurare la legittimità imperiale. In pratica gli Stati Uniti accettano le aristocrazie nazionali, le iperborghesie locali, ma nell’ambito di una organizzazione piramidale.

Il primo passo è la rimozione del personale politico locale-nazionale e la sua sostituzione con funzionari politici che accettano in toto il neoliberismo nell’accezione e versione statunitense.

Questi, a loro volta, a cascata, rimuoveranno dai vertici delle grandi aziende statali e parastatali il personale tecnico dirigenziale già selezionato con i criteri che facevano riferimento al vecchio e sconfitto blocco sociale, con funzionari che tradurranno nel loro ambito le direttive governative che, a loro volta, naturalizzano gli interessi statunitensi nei rispettivi paesi. Non sono immuni da questo tornado le grandi aziende private e le organizzazioni internazionali di qualunque tipo, comprese quelle sportive. Nei loro confronti si sparerà con inchieste, denunce, multe, che ne piegheranno ogni velleità autonoma, rimuovendole o consegnandole a personale dirigente ossequioso e servile agli interessi della “casa madre”, cioè degli Stati Uniti. E’ con questa lente che dobbiamo leggere tanti avvenimenti perché il filo nero che li collega è molto più facile da rilevare di quanto tanti/e non propriamente in buona fede non facciano.

Essere attenti/e alla lettura non è soltanto un momento teorico-intellettuale, ma è un’esigenza di sopravvivenza per il mondo tutto visto che gli Usa, che spingono per un dominio unilaterale del mondo, sono guidati dalle multinazionali anglo-americane e queste ultime non hanno nessun tipo di remora, davanti a niente.

Trasmissione del 25/11/2015 "I ruoli, le donne, la lotta armata"

Data di trasmissione
Durata 1h 10m 58s
“I Nomi delle Cose” /Puntata del 25/11/2015 “Il valore politico della rottura”

 “Quale valore hanno il nostro vissuto e le nostre azioni, la nostra storia anche, in un mondo che non ci riconosce e che non accettiamo? Come fare a essere quel qualcosa che illumina la notte con delle fiammelle così deboli?/DESMONAUTICA, la rubrica di Denys ogni ultimo mercoledì del mese ” Una volta per tutte, la tecnologia non ci rende asociali”

 

“25 novembre 2015/”Spezzare la normalità dell’esistente”

Immagine rimossa. Immagine rimossa.Immagine rimossa.

Immagine rimossa.

 

Desmonautica del 25/11/2015 "Una volta per tutte..."

Data di trasmissione
Durata 10m 18s

http://coordinamenta.noblogs.org/post/2015/11/26/una-volta-per-tutte-la-tecnologia-non-ci-rende-asociali/

Da “I Nomi delle Cose” del 28/10/2015 “Desmonautica“ la rubrica di Denys ogni ultimo mercoledì del mese.

Una volta per tutte, la tecnologia non ci rende asociali.                              

La tecnologia ci rende asociali. Questo è il ritornello di un mito culturale di questo secolo, proposto e riproposto in forme varie.

Immagini virali da condividere sui social media, nella nostalgia dei famosi bei tempi andati, privi di computer ma densi di genitori severi e pallone sotto casa, che però forse se sono andati così belli non erano. E con esse la considerevole ironia di fondo di accusare la tecnologia di depauperamento sociale non rendendosi conto che senza di essa simili frecciatine incasellate in un flusso di bit non potrebbero nemmeno essere recapitate. Articoli sensazionalisti sul pericolo delle mancanze umane delle nuove generazioni, presunte native digitali. Vignette prodotte in serie con gente al bar o in metropolitana che scrive sulla tastiera, parla al telefono e col vicino di caffè o di sedile. In un impeto di panico morale che si chiede dove andrà a finire l’insostituibile e intoccabile fisicità dei rapporti umani, la tecnologia sarebbe artefice del restringimento e della superficializzazione degli spazi e dei contenuti della socialità e della comunicazione interpersonale.

Questo tipo di rappresentazione è a dir poco capziosa, ma sociologicamente interessante, poiché inquadra a perfezione un malumore condiviso circa i cambiamenti sociali di questa epoca. Disagio che molti definirebbero, a torto, generazionale; e se statisticamente in buona parte potrebbe esserlo, in realtà bisogna osservare che anche una parte non ignorabile di cosiddetti giovani d’oggi custodisce gelosamente l’invidia del ritorno al passato e alle sue certezze. Anche di questo dovrebbero tenere conto questi baldi antimodernisti, quando creano ad hoc generalizzazioni anagrafiche. Coerenti nel loro rigetto dell’attualità, si rifanno a mediocrità con origini tutto fuorché recenti. Sia Platone che Socrate già criticavano la scrittura come forma di impedimento della saggezza: la scrittura avrebbe eliminato il bisogno di memorizzazione tipico dell’oralità, sarebbe potuta essere fraintesa e altre amenità. Entrambi erano, a ben vedere, precursori della lamentela imperitura che accompagna ogni dirompente novità nelle società umane.

Non è mai esistito un tempo in cui, dal nulla, le persone spontaneamente inciampavano in altre persone in luoghi pubblici e per magia davano i natali a mirabili conversazioni filosofiche. In realtà, la gente è sempre uscita di casa per andare a bere in osteria, a leggere i giornali sul treno e relativi esempi di genuina umanità media. Se è vero che gli umani sono animali sociali, è anche vero che sono sociali in modalità e tempi differenti tra loro. Esistono persone introverse, persone con ansia sociale, persone estroverse ma molto timide, persone nello spettro autistico e molte altre persone ancora che esistono da sempre e hanno tutte le ragioni possibili per voler evitare contatti spurii privi di criterio.  Tuttavia, qualcosa in effetti il web l’ha cambiata: ha reso possibile un ampliamento e un elevamento del livello qualitativo della propria rete sociale.

In questa epoca, una persona con accesso a Internet di fatto può accedere a livelli di calore umano e solidarietà a cui potrebbe non avere accesso nella sua rete sociale in carne ed ossa. Nella presunzione di asocialità, non si tiene infatti in considerazione il potenziale plausibile livello indignitoso di chi circonda il cosiddetto asociale. Non è chiaro per quale ragione una persona dovrebbe preferire conversare con un perfetto sconosciuto, magari palesemente inadatto rispetto ai bisogni di relazionamento della persona in questione in quanto già manifestatosi come cretino, carogna e altre sgradevolezze, quando può alzare la cornetta metaforica e comunicare con una rete di individui ed individue dove esiste una collaudata sintonia relazionale e reciprocità d’affetti. Le congetture sulla maggiore autenticità e profondità del vis à vis sono quelle che sono, congetture, e invero tradiscono l’elitarismo di ritenere culturalmente legittime solo forme comunicative adatte alle esigenze della maggioranza. Nutrirei sincero interesse nel rilevare quante persone, seguaci di questo mito, si siano mai commosse di fronte a una conversazione del sabato mattina piuttosto che di fronte a una lettera, tecnologia a base di cellulosa e non di silicio, ma pur sempre tale, e solo temporaneamente sostitutiva di un’interazione fisica, esattamente come un contatto virtuale. Bisogna poi notare che la percezione del fenomeno è statisticamente deviata. Poiché navigando si vedono perlopiù persone che si compiacciono legittimamente delle loro presenze virtuali, si dà per scontato che simili posizioni siano rappresentative della popolazione generale. Questo pensiero è inconsistente: se non esiste una tendenza oppositiva quasi militare rispetto alla presunta asocialità digitale, non è perché non esiste affatto. È perché chi razzola ciò che predica si situa già al di fuori del mezzo, rendendosi invisibile. Se questo tipo di opposizione non esistesse affatto, non ci sarebbero in primo luogo le manifestazioni di sottile, piccata critica che loro stesse espongono con orgoglio.

La distinzione fra il digitale e il reale è del tutto artificiosa. Il digitale è il reale. A meno che non si voglia dire che reale è soltanto ciò di cui nella nostra limitata esperienza sociogeografica possiamo fare esperienza, e qui emerge l’egocentrica contraddittorietà di volere, dalla propria posizione di viandante del mondo globalizzato, fare di casa propria l’unico mondo esistente.

Se però ciò che si problematizza è il disgregamento dei legami in genere, questo non viene da spasmodiche propensioni al clic, bensì da complesse modificazioni della struttura economica. È la filosofia del capitale che glorifica l’individualismo e le sue emanazioni. Infatti, ecco la fissazione per il concetto di responsabilità individuale e di merito, la mitologia del self made man ora rielaborata in chiave geek col movimento dei makers, perlomeno dalle sue componenti più dogmatiche nel loro tecnoutopismo, dove il futuro è sempre e comunque positivamente connotato come entità di intrinseca inclinazione progressista. Ciò che è successo è che abbiamo lasciato che la politica diventasse tecnica senza porci il problema di inventare e adoperare la tecnica in una modalità che rispondesse alle esigenze del nostro attivismo politico, ignorandola a piè pari come un di più, un di più che però costituisce una parte fondamentale della contemporaneità. Non è che si guardi allo schermo per non agire nel mondo, è piuttosto vero il contrario, si guarda allo schermo perché non esiste nessun tentativo organico e razionale di organizzare le forze sociali reali in una direzione utile. Tutto questo a scapito delle comunità, e a questo punto non conta molto che esse siano di carne o di pixel.

 

Trasmissione del 18/11/2015 "La nuit oubliée-Riflessioni femministe sulla Francia"

Data di trasmissione
Durata 49m 58s
“I Nomi delle Cose” /Puntata del 18/11/2015 ” La nuit oubliée- Riflessioni femministe sulla Francia”

http://coordinamenta.noblogs.org/post/2015/11/19/podcast-della-trasmissione-del-18112015/

 

“……bisogna se non altro dire che il più grande eccidio civile in Francia nel dopoguerra non è stato quello del 14 novembre di quest’anno, ma quello del 17 ottobre del 1961, quando una manifestazione di algerini francesi che chiedevano indipendenza per il proprio paese fu repressa nel sangue. Manifestazione indipendentista che aveva assunto anche un aspetto sociale: gli invisibili abitanti delle periferie più squallide, che producevano alla Renault e nelle altre fabbriche della Parigi operaia, invasero il centro della “ville lumière”, vetrina del benessere e della “grandeur” francesi. La manifestazione era assolutamente pacifica, la chiamata era contro l’imposizione del coprifuoco alla popolazione algerina e diceva testualmente “ non saranno tollerate armi – “neanche una spina” – né comportamenti violenti” e parteciparono in trentamila comprese famiglie, donne e bambini. Ancora oggi non si sa esattamente quanti siano stati i morti, non è stato neanche mai possibile definirne la cifra, approssimativamente fra i duecento e i trecento. Per settimane la Senna riportò a galla decine di cadaveri……” La coordinamenta, Storia e memoria

 

 

“..Noi abbiamo su questo, noi donne del Mali, un ruolo storico da giocare, qui e ora, nella difesa dei nostri diritti umani contro tre forme di fondamentalismo: quello religioso tramite l’islam radicale, quello economico tramite il mercato globale, quello politico tramite la democrazia formale, corrotta e corruttrice (…) Perché i potenti del mondo che si preoccupano tanto della sorte delle donne africane non ci dicono la verità sulle poste in gioco minerarie, petrolifere e geostrategiche delle guerre?….”    Aminata Traorè e altre femministe maliane  contro la strumentalizzazione della violenza contro le donne da parte della comunità internazionale per giustificare l’intervento armato in Mali.

 

“…Il vero scontro di Civiltà che stiamo vivendo è in realtà ortogonale a quello che ci viene raccontato dai media, dai predicatori apocalittici di tutte le religioni, dai califfi rampanti, come dal Front International dei leader che hanno sfilato a Parigi con Hollande.
Non si tratta infatti di “Oriente” contro “Occidente”, ma delle classi dominanti di entrambi i poli contro le classi subalterne, per controllarle attraverso il potere della paura e dell’ostilità reciproche.
Affinché i proletari di tutto il mondo non si uniscano, bisogna che si combattano.” Alessandra Daniele “Da Ferguson a Parigi”.

http://www.carmillaonline.com/2015/01/18/da-ferguson-a-parigi/



“La nuit oubliée” /Riflessioni sulla Francia/ Perchè a Parigi?/La coordinamenta verso il 25 novembre/LO STRUMENTO DEL PARTIRE DA SE’ E IL VALORE POLITICO DELLA ROTTURA”

 

Parentesi del 18/11/2015 "Perché a Parigi?"

Data di trasmissione
Durata 5m 46s
Perchè a Parigi?
Immagine rimossa. Immagine rimossa.“Perché a Parigi?”

di Elisabetta Teghil                       

Centinaia di morti civili sono all’ordine del giorno nei paesi mediorientali, ma la notizia scivola come un dato di cronaca senza provocare particolare commozione. Quando questo avviene in un paese dell’Europa occidentale suscita una mobilitazione e un interesse assolutamente diverso e più importante rispetto a tanti analoghi episodi che tutti i giorni insanguinano quegli sfortunati paesi.
Dove sta la differenza? Forse la risposta ce la dà Aimé Césaire: ”Ciò che il borghese del XX secolo, tanto distinto, tanto umanista e tanto cristiano, non riesce a perdonare a Hitler, non è il crimine in sé, l’umiliazione dell’uomo in sé, ma il crimine contro l’uomo bianco, il fatto di aver applicato all’Europa procedimenti colonialisti, riservati, fino a quel momento, agli arabi d’Algeria, ai coolies dell’India e ai neri africani”.
Tutto è cominciato quando gli Stati Uniti, appoggiandosi per motivi geopolitici al governo pakistano, hanno foraggiato, finanziato ed armato la parte più retriva della società afghana, nella fattispecie i Talebani, che hanno rovesciato in un crescendo di violenze inenarrabili un governo democratico e progressista .Gli Usa, forti di quel successo e del concorso di una sinistra riformista e socialdemocratica che ha partecipato in vari modi a quei delittuosi avvenimenti, hanno replicato il gioco in tanti altri paesi. Per ricordare gli ultimi l’Iraq, la Libia e, attualmente, la Siria. I morti civili in quei paesi sono tanti e tali che è praticamente impossibile darne il numero se non con approssimazione, ma si tratta certamente di milioni. Sempre a questo proposito, il colonialismo è stata la disumanizzazione di popolazioni intere ed è stato realizzato attraverso il terrore assoluto fino a rendere vana l’idea stessa di resistenza. Tutto ciò sta avvenendo nei confronti dei popoli mediorientali con la creazione e il sostegno materiale e finanziario dell’Isis da parte degli USA che si sono appoggiati, in questo caso, agli Stati più reazionari di quell’area geografica, Arabia Saudita, Emirati Arabi, Qatar e Turchia.
Inutile girarci intorno, l’Isis è una creatura degli Stati Uniti. Ma qualcuno dirà, perché proprio Parigi?
Perché la Francia ha ripreso in maniera forte il progetto neocolonialista, tanto è vero che truppe francesi sono presenti in vari scenari soprattutto nelle loro ex colonie dove interferiscono in maniera prepotente negli affari interni rovesciando governi, imponendo loro uomini di fiducia e rastrellando le ricchezze di quei paesi con la complicità dei loro quisling.
Ma perché la Francia da quando è presidente Francois Hollande sta percorrendo senza scrupoli questa strada?
Intanto perché i socialdemocratici, comunque si chiamino, e in Francia si chiamano partito socialista, avendo sposato la causa neoliberista, hanno portato in dote l’impianto teorico del ritorno al colonialismo che una volta verteva sulla diffusione della civiltà cristiana, del commercio e del progresso e oggi si giustifica nei diritti umani, nei mercati e nella democrazia.
A questo si deve aggiungere che il personale politico francese non è di nuovo conio, ma è l’onda lunga per “discendenza” e “matrimoni” del personale politico che a suo tempo gestì le colonie. Ed ancora, una delle caratteristiche figlie del neoliberismo è che lo stesso seleziona un personale, in questo caso politico, particolarmente mediocre ed Hollande ne è l’esempio. La politica estera francese ha ripristinato il concetto di protettorato, una parola che non si usava più pronunciare dagli anni ’50, tornata alla ribalta con il revisionismo storico che ha rivalutato il colonialismo. La rilettura del colonialismo e il suo rilancio sono il risultato di un’operazione teorica parte del progetto neoliberista che ci conferma che quest’ultimo è una visione complessiva del mondo ed è pertanto un’ideologia.
Ma, per tornare alle vittime di Parigi, bisogna se non altro dire che il più grande eccidio civile in Francia nel dopoguerra non è stato quello del 14 novembre di quest’anno, ma quello del 17 ottobre del 1961, quando una manifestazione di algerini francesi che chiedevano indipendenza per il proprio paese fu repressa nel sangue. Manifestazione indipendentista che aveva assunto anche un aspetto sociale: gli invisibili abitanti delle periferie più squallide, che producevano alla Renault e nelle altre fabbriche della Parigi operaia, invasero il centro della “ville lumière”, vetrina del benessere e della “grandeur” francesi. La manifestazione era assolutamente pacifica, la chiamata era contro l’imposizione del coprifuoco alla popolazione algerina e diceva testualmente “ non saranno tollerate armi – “neanche una spina” – né comportamenti violenti” e parteciparono in trentamila comprese famiglie, donne e bambini. Ancora oggi non si sa esattamente quanti siano stati i morti, non è stato neanche mai possibile definirne la cifra, approssimativamente fra i duecento e i trecento. Per settimane la Senna riportò a galla decine di cadaveri. La polizia di allora disse che i morti erano stati tre e che si era dovuta difendere da manifestanti armati. Da quel tragico giorno si sono succeduti numerosi governi, nessuno ha voluto e saputo raccontare quegli avvenimenti, neanche i vari personaggi istituzionali che si sono avvicendati nella magistratura e nella polizia. Nessuno è stato chiamato a risponderne. Nessuno ha pagato. E’ calato un silenzio tombale che ha ucciso per la seconda volta donne, bambini, anziani e uomini. A proposito di questi ultimi molti dei cadaveri recuperati erano evirati, a conferma dell’efferatezza di quelle uccisioni e a smentita di una presunta superiorità della civiltà bianca. A questo silenzio si sono accodati accademici e storici, quell’episodio non viene citato in nessun libro di storia, come allora non fu riportato da nessun giornale tranne che dall’Humanité e dalle riviste Temps Modernes e Testimonianza Cristiana, e fu denunciato solo da pochi coraggiosi intellettuali come Jean Paul Sartre, Jean Luc Einaudi e dallo storico Pierre Vidal-Naquet. Da questo punto di vista non è cambiato niente.
Per la strage del 14 novembre è stato sottolineato che gli attacchi sono stati simultanei in diversi posti, ma anche nel 1961 non ci fu solo la repressione rispetto al corteo, ma fu organizzata anche in altri luoghi di Parigi, nella sola prefettura ci furono cinquanta morti.
Nel 1989 è stata fondata un’associazione, “Au nom de la mémoire”, composta soprattutto dai figli delle vittime di quell’avvenimento e che pone invano tre richieste: il riconoscimento degli avvenimenti del 17 ottobre come crimine contro l’umanità, il libero accesso agli archivi per quanto concerne la storia della guerra d’Algeria, l’inserimento dei fatti del 17 ottobre nei manuali di storia.
L’Isis è come gli Harkis, un corpo di algerini collaborazionisti guidato da ufficiali francesi a cui veniva demandato il lavoro più sporco e che si sono coperti di crimini orrendi nei confronti dei loro connazionali. Agli Harkis erano stati dati due alberghi nel quartiere popolare parigino della Goutte d’Or, alberghi che erano veri e propri centri di tortura.
I rastrellamenti degli algerini erano all’ordine del giorno, le famose “rafles”, retate che venivano chiamate “la caccia ai topi”. Per coprire il tutto furono, poi, emanate quattro amnistie ed una serie di regolamenti che impediscono l’accesso ai documenti degli Archivi di Stato fino a cent’anni dall’accadimento degli stessi.
Il 20 ottobre di quell’anno, le donne algerine indissero una manifestazione e il 9 novembre andarono davanti alle carceri dove era in atto uno sciopero della fame delle detenute e dei detenuti.
L’infamia borghese in tutte le sue articolazioni, si manifestò anche nel febbraio del 1962 quando l’OAS effettuò un attentato che uccise una bambina di quattro anni e quando, nella manifestazione di indignazione e di protesta che ne seguì, indetta dalla CGT e dalla CFTC, a Parigi, alla stazione del metrò Charonne, la polizia uccise otto manifestanti, un nono morì in seguito alle ferite. Una delle vittime, Fanny Dewerpe, era sfuggita ai rastrellamenti durante la guerra, suo cognato era stato fucilato nel 1944, suo marito René era stato manganellato a morte il 28 maggio 1952 nel corso di una manifestazione per la pace, a conferma che la borghesia ha tanti volti, ma l’essenza è sempre la stessa.
Noi i nomi delle vittime di Metrò Charonne li conosciamo tutti, ma quelli degli algerini massacrati il 17 ottobre, quasi nessuno. Anche nella morte sono diversi.
Diffondere la conoscenza di questi crimini è il modo migliore di rendere giustizia ai morti.
Allora ce la vogliamo dire tutta fuori dai denti? Nelle banlieues parigine si è festeggiato per quello che è accaduto e siccome siamo in vena di sincerità diciamo che parte della colpa è anche nostra, e parliamo della sinistra di classe. Non abbiamo saputo raccontare quegli episodi, abbiamo partecipato all’ oblio, non abbiamo saputo dare sponda e progetto alle loro attese, abbiamo lasciato vuoto uno spazio e perciò abbiamo consegnato tanti giovani all’integralismo islamico. La religione ha saputo essere quel collante che la sinistra di classe non è riuscita a dare. Dovremmo riflettere su questo.
Qualcuno dirà: ma dove sta la differenza tra la Francia e l’Italia? Anche noi abbiamo al governo socialdemocratici neoliberisti, che da noi si chiamano PD, anche noi abbiamo una classe dirigente mediocre, anche noi abbiamo partecipato a tutte le così dette guerre umanitarie, addirittura all’aggressione alla Libia, facendoci portare via un paese con cui avevamo un rapporto privilegiato ereditato dall’esperienza coloniale. Dove sta la differenza? La differenza è che l’Italia è supina agli Stati Uniti e non ha velleità di avere una politica estera autonoma da quella statunitense. Con Nicolas Sarkozy ( quest’ultimo sta a Charles de Gaulle come Carlos Menem sta a Juan Domingo Peròn) la Francia ha ridefinito il rapporto con la Nato e dentro la Nato e ha reimpostato i Servizi. Questi ultimi sono tacciati di impreparazione e pressapochismo, ma a suo tempo, avevano dimostrato grande efficienza nel salvaguardare la vita di Charles de Gaulle. Evidentemente il rapporto privilegiato con gli Usa e il ridefinito rapporto con la Nato non sono la soluzione, ma il problema e non si conciliano con una politica estera indipendente.
In definitiva, tutto nasce dal progetto neoliberista che i paesi del terzo mondo devono sottomettersi e conoscere una nuova era di colonizzazione caratterizzata dall’arroganza dei colonizzatori convinti di far parte di una categoria superiore, più civilizzata, più progredita e dal disprezzo che questa ha dei colonizzati, tanto che a volte arriva a considerarli come non appartenenti al genere umano.
L’oscena strumentalizzazione dei fatti di Parigi con la richiesta di maggiori risorse e mezzi alla polizia, all’esercito e ai Servizi, in definitiva con la canonizzazione del “bisogno di sicurezza”, è in correlazione diretta con la disoccupazione cronica, la normalità della precarietà, l’esclusione dai diritti di cittadinanza di chi è fuori dal mercato del lavoro, l’aumento dei poveri, dei senza casa, dei marginali, degli immigrati e il tutto non è il frutto sgradito della politica neoliberista, ma ne è la sostanza. Questo è il senso delle politiche securitarie, un’impostazione atta alla ridefinizione dei rapporti di forza con il mondo del lavoro, una compiuta colonizzazione dei popoli dei paesi occidentali così come già avvenuto negli Stati Uniti, una guerra a tutto campo sul fronte esterno e sul fronte interno mettendo in preventivo la guerra nei confronti della propria popolazione, trasformando aree geografiche, etnie, ceti, ambienti in colonie interne.
Il vero destinatario delle politiche securitarie è il lavoro e il lavoratore. E’ nell’ambito di questa impostazione che la polizia acquista un potere che non ha mai avuto in passato e gli eserciti nazionali diventano truppe colonialiste ad uso interno e che la Nato si trasforma in un organo di polizia internazionale. Polizia, eserciti nazionali, Nato hanno come scopo diretto e fondamentale la salvaguardia armata degli interessi del capitale contro il lavoro. Ne consegue la necessità della fine del capitalismo, ma questa passa attraverso la sconfitta politica del neoliberismo e dei suoi funzionari politici, la socialdemocrazia. Nella deriva dei continenti politici partitici la socialdemocrazia è diventata la destra moderna, conservatrice e reazionaria e sposa in Italia e in Europa la causa statunitense, nella stagione in cui gli Usa tentano di imporsi come impero.
Come una volta le potenze coloniali usavano gli ascari, ora usano l’Isis, ma come succedeva anche una volta, spesso gli ascari sfuggono di mano. O meglio chi toglie le armi agli ascari quando non sono più utili?

 

Trasmissione dell'11/11/2015 "TTIP" e "25 novembre"

Data di trasmissione
Durata 58m 43s
“I Nomi delle Cose” /Puntata dell’11/11/2015 “TTIPImmagine rimossa.  e “La coordinamenta verso il 25 Immagine rimossa.novembre”

 

“Mi dicevano
è meglio se sorridi a bocca chiusa.
Mi dicevano è
meglio se ti tagli i capelli lunghi,
così crespi,
sembri ebrea.
Mi zittivano nei ristoranti
guardandosi intorno
mentre gli specchi sopra il tavolo
riverberavano beffardi in infiniti
riflessi un volto rozzo, squadrato.
Mi chiedevano perchè
quando cantavo per le strade.
Loro alti, grandi al tè
coi loro modi melliflui, didattici
io con gli occhi sul piattino
che cercavo di nascondere la bomba
a mano nella tasca dei calzoni,
e mi rannicchiavo dietro il pianoforte.
Mi deridevano con riviste
piene di seni e merletti, contenti come pasque
quando il primogenito del dottore
sposava una ragazza tranquilla e carina.
Mi raccontavano storie
di signore eleganti e sportive
e le loro diverse carriere.
Mi svegliavo la notte
con la paura di morire.
Costruivano schermi e divisori
per nascondere il desiderio
non bello a vedersi
a sedici anni
inesperta disperata
mi abbottonarono dentro vestiti
a fiori rosa.
Aspettavano che io finissi
per riprendere la conversazione.
Sono stata invisibile,
strana e soprannaturale.
Voglio il mio vestito nero.
Voglio che i capelli
mi si arriccino selvaggi.
Voglio riprendere la scopa
dall’armadio dove l’ho rinchiusa.
Stanotte incontrerò le mie sorelle
nel cimitero.
A mezzanotte
se ti fermi al semaforo
nel traffico umido della città,
guarda se ci vedi contro la luna.
Noi gridiamo,
noi voliamo,
noi ricordiamo e non smetteremo.”

STREGA (1969) di JEAN TEPPERMAN

La Parentesi dell' 11/11/2015 "Sparare sul quartier generale"

Data di trasmissione
Durata 4m 28s

http://coordinamenta.noblogs.org/post/2015/11/12/la-parentesi-di-elisabetta-dell11112015/

“Sparare sul quartier generale”

Immagine rimossa. Gli anni del femminismo sono stati gli anni del desiderio. Il femminismo degli anni ’70 era il portato della carica liberatoria che le donne avevano accumulato come saperi, come consapevolezza, come scoperta, come assunzione su di sé della necessità di capire i propri desideri e della possibilità di prendere in carico la capacità di realizzarli. Era un impegno a sottrarsi alla società patriarcale e capitalista, nel desiderio della possibilità di una felicità collettiva. La via della liberazione non si opponeva a dei soggetti, ma alla totalità del presente inteso come totalità organizzata di un sociale, cioè l’insieme delle relazioni sociali che riproducevano continuamente una società sessista e classista. Era il tentativo cosciente di sconfiggere l’ambiente costituito dai dispositivi semantici, discorsivi, di controllo che rendono possibile il perpetuarsi del patriarcato e del capitalismo.

Era un processo che circolava in tutte le situazioni in cui era in grado di vivere e ha permesso la sperimentazione e l’attuazione di pratiche di liberazione concrete e autonome che hanno conferito a chi le ha percorse una capacità di riappropriarsi della propria vita anche attraverso momenti di grande fatica e di conflittualità con la stessa coscienza illusoria che ognuna di noi si porta dentro, frutto della manipolazione con cui avviene la costruzione del femminile.

Ma è successo al femminismo quello che è successo al movimento tutto: il sistema ha fatto balenare l’idea che le lotte categoriali e corporative fossero vincenti, dividendo così il fronte di lotta, insinuando il tarlo della separazione fra soluzione immediata di esigenze materiali  e liberazione futura collocata in un fumoso avvenire, spettro di un’utopia di poche/i, irrazionali e sognatori/trici.

Nello specifico femminista ha usato le femministe socialdemocratiche che hanno presentato l’emancipazionismo come la soluzione e la panacea in contrapposizione alla radicalità del femminismo liberatorio e alla sua netta opposizione alla struttura di questa società.

La maggior parte delle donne si sono fatte irretire da queste sirene: alcune erano in buona fede, altre no. La stragrande maggioranza ha scelto la sistemazione personale quando è stata data questa  possibilità. Questa in sé non è una colpa. Trovare soluzione economica e anche di vita e perché no, di soddisfazione personale non solo è lecito, ma anzi auspicabile. Il problema si è presentato ed è diventato grave, quando chi ha fatto questa scelta, per giustificarla, si è prestata a veicolare che questa era la soluzione giusta, corretta e ragionevole, demonizzando la “radicalità”…. la ”violenza”…la “mancanza di maturità”…di chi continuava a porsi il problema dell’uscita dalla società patriarcale e capitalista e usando  proprio gli strumenti del femminismo per addomesticare il femminismo: … la sorellanza… l’orizzontalità… la condivisione….. la “positività” del portato femminile  e anche  la necessità di avere visibilità, la possibilità di trasformare il maschile, tacciando chiaramente di insipienza tutte quelle che continuavano a dire che la sorellanza era attraversata dalla classe…che la compartecipazione nelle istituzioni non era altro che la partecipazione alla gestione del potere…che la violenza era del dominio e del patriarcato e non di chi si poneva il problema di uscirne.

Hanno  operato, così, lo stesso tradimento di quelle/i che si sono laureate/i in prima generazione e si sono svendute/i per la promozione personale dimenticando come e perché erano riuscite/i a ottenere quello che avevano ottenuto e, anzi, demonizzando quelle pratiche.

I gruppi, i collettivi, le singole che avevano una visione diversa c’erano, eccome! ma il loro isolamento è avvenuto attraverso la stampa mainstream , l’uso del gratuito, la funzione delle esperte e degli esperti, la demonizzazione delle posizioni di classe, la promozione  strumentale a femministe storiche di quelle  che avevano teorizzato posizioni come il rifiuto di “ogni ideologia”, del pensiero razionale o dell’intera storia perché risultato della dominazione maschile.

Proprio l’uso di queste categorie ha zittito tutte quelle che avrebbero voluto fare chiarezza.

Proprio le donne che sono entrate nelle istituzioni e/o che dalle istituzioni sono state finanziate nelle maniere più svariate, ma anche quelle che a vario titolo si sono identificate nei meccanismi di questa società, hanno contribuito in maniera importante all’isolamento e al disconoscimento dei collettivi e delle singole  refrattarie, non omologate, devianti e recalcitranti, prestandosi ad essere veicolo del pensiero unico dominante, perpetuando l’oppressione su tutte le altre donne.

L’uscita dal pantano in cui è stato trascinato il movimento femminista ora può essere solo il risultato  di un percorso di verità.

Il movimento femminista è stato attraversato dalla lotta di classe, proprio al suo interno.

Il problema non è riconoscere che lotta di genere e di classe sono inscindibili, che la nostra lotta è inseparabile dalla lotta per una società dove non ci sia sfruttamento e che se non siamo liberi tutte e tutti non è libera/o nessuna/o. Questo è un portato che appartiene al femminismo e non credo che ci sia bisogno di spiegare che l’unico femminismo è quello che percorre vie di liberazione, ma la necessità è di riconoscere  che il problema è interno.

E’ la mancanza di riconoscimento che all’interno del femminismo si è espressa la lotta di classe e che ha vinto la borghesia che ci ha condotte fino qui e che ci impedisce di uscire dal pantano.

Il primo passo necessario  per riportare il femminismo alla sua dimensione di percorso di liberazione è sparare sul quartier generale.

Poi, ognuna  sceglierà gli strumenti e le modalità che ritiene più congeniali nell’afflato  di libertà che ci accomuna.

Trasmissione del 4/11/2015 "Il valore della rottura"

Data di trasmissione
Durata 1h 3m 51s
“I Nomi delle Cose” /Puntata del 4/11/2015 “Il valore della rotturaImmagine rimossa.  e “La grande guerra/I sogni muoiono nel pomeriggio”

GETTARE GLI ZOCCOLI NELL’INGRANAGGIO/la Trident Juncture si può fermare/la diretta con le compagne da capo Teulada/La grande guerra/4 novembre/dedicata a Olga Rozanova e alla rivoluzione d’ottobre/Occhi bene aperti/I ruoli sessuati nella situazioni emergenziali”

 

 

La Parentesi del 4/11/2015 "Occhi bene aperti"

Data di trasmissione
Durata 7m 16s
“Occhi bene aperti”

http://coordinamenta.noblogs.org/post/2015/11/05/la-parentesi-di-elisabetta-del-4112015/

Immagine rimossa.

Tutto comincia a cambiare con il veto all’ONU  della Russia e della Cina sull’intervento diretto delle  “potenze occidentali” in Siria. Memori di quello che è successo in Libia, la Russia e la Cina hanno capito che la tattica della foglia del carciofo attuata da Usa e alleati è di fatto diretta a loro e sono corsi ai ripari.

Gli Stati Uniti mirano, in Medio Oriente e non solo, a destabilizzare gli Stati asimmetrici ai loro interessi. A questo scopo hanno creato, addestrato e armato gli integralisti islamici, Isis compreso. Ora l’integralismo islamico è sfuggito loro di mano. Quello che sta succedendo in Afghanistan è esemplare, ma tutto ciò agli Usa permette comunque di giocare a due tavolini: da una parte continuano a foraggiare il variegato mondo dell’integralismo islamico, dall’altra usano il terrorismo come strumento per compattare l’occidente…je suis Charlie docet…e per avere eventuale mano libera per intervenire come e dove ritengono conveniente.

Inoltre, nel settore medio-orientale il referente degli Usa è Israele, anzi per gli Usa, in medio oriente è la politica israeliana che ha guidato le scelte comuni.

Israele mira a distruggere gli Stati Nazione di quell’area, Turchia, Iran, Iraq, Siria, Egitto e a ridurli a staterelli inconsistenti facilmente manovrabili e gestibili. Non ha mai tralasciato il progetto sionista, che, anzi, è il filo conduttore sotterraneo delle sue scelte politiche, di costruire il Grande Israele. Il concetto di “Grande Israele” si fonda sull’idea di uno stato ebraico esteso dall’Egitto fino all’Eufrate includendo parti della Siria e del Libano, il “Piano Yinon” del 1982.

E infatti, l’Isis è appoggiato da Israele in funzione destabilizzante degli Stati Nazione dell’area mediorientale. L’ Isis, guarda caso, non attacca mai obiettivi israeliani. Ma come? Gli integralisti musulmani non vogliono pregare a Gerusalemme?

Si è creata, così, un’alleanza Usa-Curdi. I Curdi, da una parte combattono l’Isis, dall’altra sono elemento scardinante degli Stati Nazione in quell’area.

Però la situazione internazionale è in movimento.

Si sta venendo a creare un asse Russia-Cina e alleati mediorientali Iraq, Hezbollah libanesi, compresa la Siria dove, peraltro, la Russia è stata chiamata in aiuto dal governo legittimo come era successo in Afghanistan.

E gli Usa sono in un momento di transizione. La loro politica in medio oriente si è rivelata fallimentare. Il mandato di Barack Obama è in scadenza e bisogna vedere chi gli succederà. Ricordiamoci sempre che gli Usa hanno, da molto tempo e precisamente dall’uccisione di J.F.Kennedy, perso la mediazione politica e sono governati direttamente dalle multinazionali di cui le rappresentanze politiche sono diretta filiazione.

Per la prima volta, gli interessi Usa, almeno parzialmente, stanno divergendo da quelli Israeliani. Però Israele è anche una multinazionale molto potente negli Stati Uniti.

Ora, in questo quadro,Tayyip Erdogan in Turchia ha vinto le elezioni, ma è un morto che cammina. Se le elezioni del primo novembre avessero decretato la sua sconfitta politica sarebbe sparito dalla scena, ma il fatto che sia andata diversamente apre scenari inquietanti.

Ormai è un ostacolo sia per gli Usa che per Israele. Entrambi vogliono la creazione di un Kurdistan indipendente che ridimensioni gli Stati circostanti. Certo la Turchia dovrebbe cedere i territori rivendicati dai Curdi e allo stesso tempo la Turchia fa parte della Nato ed è un elemento importante della coalizione, ma sia gli Stati Uniti che Israele pensano che, in fin dei conti, per la Turchia non cambi poi molto cedere un pugno di montagne rispetto ai loro guadagni in termini geopolitici sapendo che l’instaurazione di un Kurdistan indipendente aprirebbe scenari importanti rispetto all’irredentismo delle zone curde in Iran che loro chiaramente si ripromettono di cavalcare

La vittoria di Erdogan è dovuta all’appoggio e al voto della popolazione più povera, delle masse contadine, di provincia, retrive e tradizionaliste dove il richiamo all’ Islam è un argomento fondante, ma è osteggiato fortemente dalla parte laica e occidentalista dell’elettorato colto che in Turchia rappresenta una parte importante della società che conta.

E proprio consapevole di questo, Erdogan nel periodo pre-elettorale è ricorso allo stragismo. Lo stragismo non è qualcosa di estraneo alle così dette “democrazie”, specialmente per quelle dell’area Nato, ma è una modalità che viene scelta in momenti determinati e per precisi interessi.

Ci ricorda quello che è successo in Italia. Ma con una differenza fondamentale. La sinistra turca ha individuato immediatamente la matrice di Stato degli attentati ed è scesa in piazza con una indiscussa chiarezza politica, mentre qui da noi, a suo tempo, così non è accaduto. E la ragione principale sta nell’ azione di addomesticamento delle coscienze, di intorbidamento degli scenari e delle ragioni politiche che ha operato la socialdemocrazia nelle vesti dell’allora PCI e dei sindacati confederali. Questo d’altra parte era il loro ruolo. Ed è con questa “così detta sinistra” che noi ancora oggi facciamo i conti.

Finora gli Usa si sono posti come Stato del capitale, hanno avanzato pretese egemoniche con una politica attiva e aggressiva con lo strumento principe della Nato come esercito di conquista, togliendo di mezzo uno alla volta i paesi asimmetrici ai loro interessi e accerchiando la Russia con operazioni come quella espressa in Ucraina.

Ora che si sta formando un asse antagonista, gli Usa e più precisamente le multinazionali che ne dettano la politica, hanno preso in seria considerazione l’ipotesi di andare ad una resa dei conti con la Russia e la Cina, resa dei conti che non esclude l’opzione della guerra. Per questo non solo la Nato è mobilitata e si esercita avendo presente questo scenario, ma sono stati chiamati alle armi anche Media, Ong, Onlus, Fondazioni, Think Tank.

Stiamo camminando sull’orlo del burrone e bisogna tenere gli occhi bene aperti.

Desmonautica "Azienda insanitaria locale"

Data di trasmissione
Durata 9m 22s

Da “I Nomi delle Cose” del 28/10/2015

“Desmonautica

la rubrica di Denys ogni ultimo mercoledì del mese.

http://coordinamenta.noblogs.org/post/2015/10/30/aziendainsanitarialocale/
“Azienda insanitaria locale”

Immagine rimossa. È un giorno come tanti, in azienda. Dottoresse e dottori sottopagati hanno subito mobbing nella misura atta a promuovere la mancanza di tatto nei confronti della clientela, come previsto dal Piano dei Servizi Sanitari dell’anno corrente. Enormi passi avanti sono stati fatti finanziando la ricerca, nell’obiettivo di arrivare alla sintesi di farmaci atti a curare la degenerazione progressiva della pubblica intelligenza. Si è tuttavia ancora ben lungi da risultati significativi. Le infermiere risparmiano quanto basta per pagarsi la terapia psicologica di cui avranno bisogno per liberarsi dal complesso della crocerossina. Poliziottoni nerboruti placcano zombie che assaltano la scalinata dell’edificio metà bianco metà color mattone. Tempo fa un signore che fumava una sigaretta in giacca di jeans bofonchiò che in realtà erano vivi e volevano solo accedere alle cure che spettavano loro di diritto, ma nessuno gli ha creduto e hanno manganellato pure lui. Poi l’hanno preso, l’hanno trascinato su per le scale, l’hanno portato in ambulatorio, gli hanno sentito il battito con lo stetoscopio, ma pare che quello incitasse all’adunata sediziosa, perciò l’hanno picchiato a colpi di ecografo e l’hanno refertato dicendo che aveva sbattuto la testa. La firma al referto l’ha messa il giudice. La macchina dei numeretti scandisce a intervalli irregolari il giusto colpo della disciplina su una coltre di pensionati che hanno fatto la leva obbligatoria, ma risultano ancora virtualmente incapaci di rispettare una fila. Ci sono donne e uomini e umani e circa tre cani, uno dei quali presenzia nella variante morfologica di esperto diagnosta. Una pover’anima dai lunghi capelli castani e boccolosi, la pelle olivastra, gli occhi d’ambra e le bocca lucidalabbrata lancia sguardi annoiati agli schermi degli sfortunati che dovranno presentarsi agli sportelli, seduta tra i corridoi laterali dell’accettazione. Apre una noiosa rivista femminile tra quelle lasciate sulle penose sedie arancioni. Un venticinquenne s’avvicina.
— Mioddioooo. Cos’hai? — la fissa lui, allucinato. Ha un paio di croste da latte tardive, una sul mento e una sul cranio mezzo rapato.
— In che senso? — osserva lei, perplessa.
— Sei grassa. Ah, ah! L’ho detto. Ma quanto sono fico?
— Ah — risponde lei, continuando nella lettura. Ha già sfogliato la recensione di un album di musica tibetana, un articolo sulle proprietà del succo d’avocado e un editoriale sulle opportunità della ceretta ascellare per  donne in carriera.
— Te l’ho già detto che sei grassa? — il ragazzuolo fa uno spernacchiamento ayurvedico e incomincia a saltellare su un piede solo. Hop, hop, hop. Si porta un dito alle natiche e se lo riporta al naso, annusando con perizia.
— Sì, me l’hai già detto. Mi stai scocciando.
— Sei una brutta merda schifosa. Ehi, non offenderti. Lo dico per la tua salute. Oltre due millimetri di fianco largo sei obesa. Non lo dico io, è la realtà oggettiva dei fatti. Se misuri te non vale, la misurazione è a discrezione di chi misura. Tiro fuori il metro e ti dico io. Fai schifo. Cristo, ma non ce l’hai uno specchio a casa?
— Mi prendi per il culo?
— Sei grassa, dio mio, sei grassa. Nessun uomo ti troverà mai attraente. Nessuno, capisci? Nessuno. Anzi, no. Aspetta. C’è pure la categorie tette giganti su questo sito. Aspetta un attimo.
Il brufolato si tira giù la zip e incomincia a masturbarsi con vigore. Ansima fuori qualche interiezione e un piccolo fiotto bianco sporca il pavimento, l’asticella del desiderio gli torna moscia, poi qualcuno dice qualcosa contro gli immigrati e gli vien duro di nuovo. L’inserviente del piano terra caccia una madonna al cielo e pulisce la chiazza. Non è molto contento. Oggi ha già dovuto togliere tre neonatini putrescenti. Da quando i genitori hanno smesso di vaccinare i figli è una noia assai frequente. Pare che i genitori preferiscano un bambino privo di controindicazioni improbabili ai duecentomila che se ne vanno al camposanto senza l’ombra d’un dubbio. D’altra parte, bisogna scendere a patti con l’incertezza che ci riserva il vivere, e poi son spese di mantenimento. Precise indicazioni dell’Unione Europea ne ordinano la riduzione, pena una gigantesca sanzione. Il giovanotto continua nell’arte molesta dell’importunio.
— Lasciami stare.
— Sei grassa, perdio. Sei grassa. Vuoi fare qualcosa? Al sovrappeso è associato un aumento del rischio dello screzio cardiocircolatorio. Vuoi portarti da sola sull’orlo della morte per colpa della tua pigrizia, culona infingarda? Signora, lasci che la informi sui benefici di una dieta equilibrata che col suo stipendio non può permettersi. Oh, comunque ormai tutte ingrassano a dismisura e pretendono di sembrare gran fighe. Che troie. Ahahaha, ho detto troie, oink, snort! E poi oh, fanno le modelle, e i calendari, alcune pretendono persino di esistere. Ma che scherziamo? Nessuno vuole dire queste cose, che palle il politicamente corretto. La mia è un’opinione impopolare.
Da dietro la macchinetta del caffé escono fuori tre cloni per un istante e gli fanno eco.
— Nessuno vuole dirlo, opinione impopolare, opinione impopolare, opinione impolare. Nessuno vuole dirlo: opinione impopolare!
La radio, la televisione, i blog e tutti gli adolescenti, prepubescenti, adultescenti dalle mode usuali o alternative divulgano con giubilio l’opinione impopolare.
— Vai via! — urla. Il suo numero è stato chiamato, e va allo sportello appropriato al fine di sbrigare le sue faccende di salute.
— I soldi del ticket, signorina.
— Subito, aspetti solo un attimo — estrae una lametta dalla borsetta e si fa un taglio sul polso sinistro, facendo sgocciolare bene il sangue nel buco del vetro che la separa dall’addetta allo sportello.
— Ventisei, ventisette, ventotto e cinquanta. Tutto apposto. Arrivederci! — l’impiegata versa tutto in un provetta e la mette nella cassa. Lei se ne va via gettando la rivista.  Il tizio, magicamente, sparisce.