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I Nomi delle Cose

Desmonautica del 27/1/2016 "Note di politica trans"

Data di trasmissione
 
Da “I Nomi delle Cose” del 27/1/2016 “Desmonautica“ la rubrica di Denys ogni ultimo mercoledì del mese.

Ci scusiamo per il ritardo nella pubblicazione del contributo dovuto a disguidi tecnici

“Note di politica trans, ovvero l’importanza di avere delle priorità”

(…)Un famoso barbuto tedesco che non ha bisogno di essere citato disse che la storia è la storia delle lotte fra classi, e io sono abbastanza ideologicamente fuorimoda da essere d’accordo. Ma aggiungo che la storia è una conversazione dove ti interrompono spesso. I discorsi di chi pretende libertà sono quelli che appena cominciano si toglie l’audio. È quel genere di situazione dove bisogna imparare ad alzare la voce; io sono qua perché sento intimamente la responsabilità di rimanere abbastanza tignoso da continuare a tenere il volume alto. Sono piuttosto fiducioso di riuscirci, perché sono virtualmente incapace di modulare la mia voce in tonalità non moleste.

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Ora, molti interventi come questo cominciano con lunghi antefatti sul proprio percorso. Ma siccome io ritengo d’essere un uomo relativamente banale, e non è che la cittadinanza di maschio d’adozione cambi granché le cose, vi evito questa noia. Sì, ok, sono nato femmina, la cosa mi deprimeva a morte, blablabla, testosterone, blablabla, e ora ho l’acne, i peli e la gioia di vivere. Ordinaria amministrazione, gente! Una cosa ve la dico, però: sono bisessuale. A essere pedanti, anche questa è una descrizione sommaria, ma amo semplificare il semplificabile. Forse ritenete superfluo parlarne, ma per me è politicamente importante ribadirlo: non sono un attivista trans. Sono un attivista trans e bisessuale. C’è tutta la differenza del mondo in questa sottigliezza. Poi sono anche molte altre cose, ma questa è un’altra storia che intendo raccontare altrove.

Veniamo a noi. Se ho dato un preciso titolo a questo intervento è perché penso all’importanza, per un movimento, di definire strategicamente le sue priorità. Spesso pensiamo male, malissimo del concetto di priorità, perché una coltre di gente a dir poco discutibile ne distorce il senso. L’accezione che conferisco a questo termine non è quella che loro utilizzano. Non solo credo che le priorità di un privilegiato siano differenti da quelle di chi privilegiato non è, ma credo anche che la posizione di privilegio strutturale (sociale ed economico) e sovrastrutturale (cioè culturale) plasmi il concetto stesso di priorità. Quando questi soggetti parlano di priorità, non parlano di definire le priorità atte a mandare avanti, in senso positivo, un progresso politico. Nei loro discorsi la priorità è un artifizio che usano per nascondere il fatto che per loro, priorizzare, non è organizzare coscientemente le istanze al fine di portarle avanti con dei risultati, i migliori possibili; è posizionarne alcune sopra le altre in un’ottica escludente e distruttiva, anti-propositiva, e infine del tutto reazionaria.

Voglio essere chiaro: ogni parola che dico non intende in nessun modo sminuire chi dirige i suoi sforzi in altri luoghi, ma mi pare il caso di fare presente dove invierei maggiori attenzioni. Qui ritornerei all’affermazione per cui il personale è politico. Questa frase porta con sé almeno tre livelli di significato diversi. Il primo è teso ad evidenziare quanto alcuni aspetti delle nostre vite, apparentemente innati e naturali, siano in realtà socioculturalmente determinati. Il secondo è quello che ci rende nota la parzialità del nostro percorso esistenziale individuale, che in realtà è ingranaggio di un meccanismo collettivo, condiviso e complessivo. Il terzo, forse meno autoevidente degli altri, è questo:

parlare di personale che diviene politico mette in luce anche la materialità del quotidiano. Personale infatti non è solo una forma mentis e una direzione presa, ma anche un bisogno che abbiamo mentre lo proviamo. Questo è esattamente il punto: la nostra priorità credo risieda proprio qui, nel perseguire il soddisfacimento dei nostri bisogni materiali condivisi qui ed ora, senza più aspettare. Spesso come attivista trans mi capita di sentire lamentarsi altri attivisti ed attiviste del fatto di non essere presi in considerazione dal resto della comunità. Per quale motivo credete che questo accada? Esiste una cosa che si chiama piramide dei bisogni, in fondo ci sono basilari necessità di sopravvivenza. Soddisfatte quelle, si sale di un gradino e si può pensare al livello di astrazione del piano di sopra. Sapete cosa? La maggior parte della comunità trans non riesce a soddisfare il gradino base. Perciò se vogliamo costruire un movimento abbandoniamo l’illusione che la maggior parte delle persone possa volersi occupare di qualcosa di diverso da quello: la maggior parte delle persone non sono così masochiste da volersi occupare di dibattiti che le riguardano in modalità esclusivamente tangenziali. Abbandoniamo anche la pretesa di definirci e rimanere controcultura. Farlo significa voler rimanere nell’angolino a vantarsi di essere anticonformisti a vita, è ribellismo adolescenziale fuori tempo massimo. Noi dobbiamo diventare cultura, e basta. Non esiste un cambiamento che non passi attraversi questo. Siamo egemonici, per la miseria! Perciò, con buona pace di discorsi culturali sull’immagine della transessualità che può fornire l’attrice tal dei tali, o un altro soggetto tal dei tali, discorsi disgustosamente intrisi di politiche della rispettabilità, parliamo d’altro.

Parliamo di studenti trans. Si parla spesso in modo fumoso di diritto all’istruzione, ma qui ci riferiamo a qualcosa di molto concreto. Il nostro diritto all’istruzione è leso dalla nostra posizione economica svantaggiata, dalla pressione sociale, dalla paura della violenza, dal bullismo e dalla mancanza di una normativa che renda possibile attraversare il mondo scolastico con un nome che differisca da quello anagrafico a prescindere dalla modifica o meno dei documenti. Questo talvolta accade, e io mi ritengo fortunato nel poter dire che la mia scuola me lo sta permettendo, ma accade a totale discrezione dell’atteggiamento bendisposto di chi si ha di fronte. Vi pare che si possa contare sulla buona volontà delle istituzioni di assecondare la libertà di genere, in un paese dove è ancora scandalo la pillola del giorno dopo?

Parliamo di adolescenti trans. Faccio ancora parte di una generazione dove la maggior parte delle persone hanno scoperto di sé stesse generalmente dopo i diciotto anni, o in prossimità di quelli. Fra noi non si è posta certo la questione. Con l’avvento di una maggiore informazione esistono però ragazze e ragazzi che hanno modo di scoprire la propria verità molto prima, anche a quindici, quattordici, tredici anni e intendono giustamente transizionare presto. Invece di moralistiche, paternalistiche congetture circa l’eventualità che sia troppo presto perché loro conoscano sé stessi e possano dunque decidere per sé, preoccupiamoci di fornire loro strumenti d’analisi per loro stessi, per il mondo, e ciò che serve a soddisfare le loro necessità. Possiamo evitargli un trauma. Facciamolo. (Faccio notare come nessuno dubiti del grado di autoconsapevolezza dell’eterosessualità e del cisgenderismo degli adolescenti eterosessuali e cisgender).

Parliamo di persone detenute trans. Le galere, italiane e non, sono posti terrificanti dove in barba a ogni genere di mistificazione democratica non si fa nulla di umano o educativo: si tortura, e spesso, si uccide. Aggiungete a questo orribile retroscena le vessazioni che provengono dal violare le convenzioni in un luogo dove non ci si può proteggere. Vi pare che si possa aprire bocca con le manette ai polsi e la mano sul collo?

Parliamo di lavoratrici e dei lavoratori trans, che si vivono a metà o non si vivono affatto per non perdere l’unica fonte di reddito che hanno nel contesto più generale di un’incertezza economica sconcertante, o lo fanno ma sotto mobbing. Mi preoccupo in modo particolare delle lavoratrici del sesso, capro espiatorio di una comunità che ambisce a una normalità che non potrà mai ottenere, e la colpa è soltanto del nostro attivismo normale, accettabile, presentabile, carino, infiocchettato… e paralizzato, perché non ci porta da nessuna parte. Ci si fa un mazzo tanto ad appiattirsi su criteri di normalità, ma i criteri li fanno sempre gli altri, e ce ne terranno sempre fuori, quindi siamo fregati. E i disoccupati? E le disoccupate? Qualcuno ha idea di cosa significhi la compromissione non solo della capacità di mantenersi vivi, ma di mantenersi vivi e felici nel percorso che porta una persona alla realizzazione della persona che essa è?

Parliamo delle persone trans nel loro accesso alla sanità. Nel contesto più generale di una sanità sempre più depauperata di risorse, e le cui prestazioni sono di fatto negate a una serie di soggettività che qualcuno chiamerebbe di marginalità sociale, le persone trans ricevono un danno doppio. Non so se sapete che per esempio, a Roma, è ora praticamente impossibile trovare una struttura del tutto pubblica dove effettuare, in particolar modo, la fase psicologica del percorso di transizione, considerata, ve lo ricordo – a fronte dell’attuale stato dell’arte clinico e burocratico – obbligatoria. La struttura che in teoria sarebbe di riferimento è in sostanza privata, e richiede un gran spesa. Domanda retorica: una persona trans ha questi soldi? Un problema della sanità è quindi ovviamente quello che riguarda l’accesso a prestazioni mediche e psicologiche specificatamente legate al percorso di transizione. Queste non sono affatto garantite, e questo è un problema grosso, grossissimo, per non dire fondamentale. Il problema, peraltro, non è solo quello, in quanto come persone trans, in modo più indiretto, non ci viene garantito neanche l’accesso alla sanità generale. Infatti anche un qualsiasi altro problema di salute diventa per una persona trans un problema di sanità trans, per il truismo lapalissiano che quando si è malati non si smette di essere transessuali. Il personale sanitario tutto è quasi interamente privo di ogni cognizione su cosa sia la transessualità e su come rispettare le persone trans, in particolar modo quelle nella fase delicata e imbarazzante che genera la difformità tra presenza fisica e documenti non aggiornati. (Mi riaggancio un istante al discorso di prima: questo vale per ogni istituzione pubblica che si interfacci con le persone trans, quindi per esempio anche insegnanti, educatori). Inoltre, mi domando quanto le scienze mediche si siano attualmente poste la necessità di pensare una medicina trans, incentrata sulle specifiche esigenze e particolarità di un corpo transessuale. Vorrei fare un breve inciso anche sulla malasanità, ma non ho gli strumenti e le conoscenze necessarie, perciò a questo riguardo vi invito soltanto ad approfondire se non l’avete già fatto le brutte vicende che hanno coinvolto Elena Sofia Trimarchi. Queste che vi ho elencato finora sono solo alcuni esempi di questioni che io, personalmente, mi pongo.

Però capiamoci. La lotta degli studenti trans dev’essere la lotta degli studenti tutti. La lotta per la sanità trans non può esimersi dall’essere parte di una lotta per i diritti dei pazienti in generale. La lotta delle e dei detenuti trans dev’essere parte di un discorso d’insieme sulla realtà delle carceri. Nessuna, nessuna delle nostre lotte si può permettere più di esistere se non così. Non è un suggerimento, è una scelta che dobbiamo fare: solidarizzare o soccombere. E quando parliamo di solidarietà, parliamo di una solidarietà pratica, viva, forte, relazionale: altrimenti non parliamo di solidarietà, parliamo del fantasma delle pubbliche relazioni, un inutile golem da comunicato. Come individui, carissimi miei, carissime mie, non contiamo niente. Perciò facciamo reti, rizomi, prolungamenti, tutto quello che ci pare, ma connettiamoci. Una lotta senza ponti muore settoriale. Questo è, per me, il significato politico più bello e prezioso dell’intersezionalità: non la necessità di fare tuttologia militante ogni volta che si parla di un singolo argomento per sentire l’ebbrezza del politicamente corretto, ma le opportunità sostanziali che essa offre nel creare legami.

Ho parlato per me e per nessun altro, le mie vogliono essere più indicazioni provenienti dalla mia visione del mondo, che non un flusso di logorrea didascalica e onnicomprensiva. Mi auguro di aver ricoperto una qualche utilità e vi ringrazio ancora. Vi lascio un’ultima cosa, una domanda. Oggi discutiamo, domani pure, dopodomani cosa volete fare? Questo è tutto. Ho finito.

 

Trasmissione del 3/2/2016 "L'uso della memoria"

Data di trasmissione
Durata 57m 38s
“L'uso della memoria”

"Dal giorno della memoria ai Cie, dall’antifascismo alle desaparecide./Stato sociale/Incontro con Silvia Nati e Roberta Fornier: Argentina. 1976-1983. 30.000 desaparecidos. La Storia vera di una di loro. Identità imposta, identità personale, identità acquisita. Identità di un popolo."

 

 

 

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Desaparecidos: scomparsi.
Durante gli anni ’70 in Argentina, una delle dittature più violente del “secolo breve” decide di cancellare in maniera sistematica e perversa un’intera generazione.
30.000 desaparecidos. Tra di loro anche 500 neonati. La maggior parte nati nei centri clandestini di detenzione, ultimo tetto delle loro madri, e dati in adozione a famiglie di militari cancellandone completamente l’identità, le tracce dei loro legami precedenti. Questo perché non si corresse il rischio che diventassero come coloro che li avevano generati: persone libere, pronte a creare una società libera.
Ad oggi sono appena 119, 119 su 500, i bambini ritrovati grazie all’ostinato e infaticabile lavoro delle Abuelas de Plaza de Mayo. Sono uomini e donne che hanno vissuto vite diverse da quelle a cui erano destinate.
Questo spettacolo racconta la Storia vera di una di loro.
Un giorno, un giorno qualsiasi, le rivelano che non è la persona che ha sempre pensato di essere. Scopre, da adulta, che i suoi genitori non sono quelli che ha sempre chiamato “papà e mamma”, che il suo sangue ha il colore della rivolta e della desapareción, che nulla di ciò che sa di se stessa corrisponde alla verità….nemmeno il suo anno di nascita.
Cosa può fare un essere umano che si specchia senza più sapere chi è? Come accettare una nuova identità, un nuovo nome?
Un doloroso percorso di consapevolezza dove lo scontro, il dubbio, l’impotenza e la ribellione si accavallano. Ricomporre se stessi, essere come un puzzle cui mancano sempre delle tessere. Ricostruirsi nonostante i pezzi mancanti….
Identità imposta, identità personale, identità acquisita. Identità di un popolo.

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La Parentesi del 3/2/2016 "Stato sociale"

Data di trasmissione
Durata 5m 5s
“Stato sociale”

 

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Lo stato sociale si è presentato, a partire dagli anni ’30 e, poi, soprattutto dalla seconda metà del XX secolo, come tentativo da parte del capitale di contenere la lotta di classe e magari di regolamentarla dentro le sue esigenze di sviluppo  cioè della valorizzazione capitalistica della forza lavoro. Le politiche dello stato sociale hanno rappresentato la risposta alla paura determinata dalla rottura dell’ordine capitalistico provocata dalla rivoluzione d’ottobre. L’affermazione, l’espansione dello stato sociale è stata, da subito e da sempre, condizionata dallo spessore e dalla qualità della lotta di classe dell’offensiva operaia durante i vari cicli che hanno percorso il XX secolo.

Ha contato anche la necessità da parte del capitale di creare una recettività all’altissima offerta di prodotti industriali, ma lo stato sociale ha rappresentato soprattutto il tentativo di devitalizzare le ondate di lotta della classe operaia.

La formula capitalista della stagione d’oro dello stato sociale, cioè dopo la fine della seconda guerra mondiale, è la dimostrazione dello spessore a cui erano arrivate le lotte operaie. In quella stagione il capitale ha stretto alleanze con i sindacati e con la socialdemocrazia al fine di legittimare “democraticamente” il proprio potere coniugando questa legittimazione con gli interessi volti a sollecitare una domanda interna per garantire i processi di valorizzazione del plusvalore.

Questa impostazione, continuamente investita da successive ondate di lotte operaie, è stata interrotta, in maniera drastica e per scelta di parte, dal grande capitale a guida statunitense quando ha optato per il neoliberismo. E’ stato un passaggio nodale. La rottura, la scelta neoliberista ha comportato una trasformazione dei soggetti in campo. Il neoliberismo mette tutta la società al lavoro e mette tutto il mondo sociale sotto il proprio comando.

Questa risposta del capitale di superare l’azione di classe smantellando lo stato sociale è quindi una scelta ed è avvenuta attraverso una serie di processi di privatizzazione, presentati come necessari e utili per la collettività e avallati come tali da sindacati e socialdemocrazia. Tutto ciò all’interno dei paesi dell’area capitalistica accompagnato da una spinta e da una accelerazione dei processi di globalizzazione economica che trovavano campo libero in seguito al crollo dell’Unione Sovietica che, a torto o a ragione, veniva identificata con il comunismo.

Margaret Thatcher e Ronald Reagan hanno aperto la breccia nello stato sociale, ma chi si è prestato ad ucciderlo è stato Tony Blair e i suoi epigoni socialdemocratici.

Se consideriamo lo stato sociale per quello che è sempre stato, cioè non come concezione statale, ma come prodotto delle lotte operaie, cioè manifestazione tangibile della lotta di classe, allora comprendiamo che la battaglia per lo stato sociale è ancora viva perché è la manifestazione della capacità del movimento di classe di incidere su tutti i nodi del processo sociale.

Ma questo non può essere attuato cercando mediazione e contrattazione, che sono state chiuse in maniera unilaterale e a tutto campo, dal capitale, bensì soltanto recuperando l’offensiva di classe degli strati sociali attaccati dal neoliberismo, platea sociale che proprio il neoliberismo ha reso più vasta e variegata. Solo così sarà possibile, a ricaduta, riottenere quello che è stato tolto e rispondere alle nuove esigenze dettate dalla sensibilità della nostra stagione. La centralità è la lotta politica ed è inutile inseguire i discorsi fuorvianti e parziali sulla crisi o sulla sostenibilità. Lo stato sociale è il sottoprodotto di una lotta politica che ha mire ideali molto più alte e che si pone il problema dell’uscita dalla società del capitale.  Una nuova stagione di lotte non deve lasciare al capitale né alla sua manifestazione organizzata, lo Stato, né ai suoi surrogati, il comando e il monopolio di gestire quello che è nostro.

Gli aspetti dello sfruttamento sono molteplici, pertanto, molte modalità possono e devono prodursi per costruire un nuovo programma politico incentrato su desideri e spinte rivoluzionarie perché solo così nel presente, a ricaduta, lo stato sociale verrà proposto dalla controparte come possibile mediazione.

Lo stato sociale non ha soltanto rappresentato un’esperienza storica, ma è stato anche un’esigenza, un’aspettativa che, per molti versi, si è realizzata.

Bisogna ricostruire le modalità, le occasioni, la scansione per cui si è affermato, tenendo conto dei nuovi soggetti che sono presenti oggi nella stagione neoliberista.

Trasmissione del 27/1/2016 "La scuola azienda: da Mc Donald's alle tette""

Data di trasmissione
Durata 55m 39s
“La scuola azienda: da McDonald’s alle tette”

 

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“L’uso sterilizzato della memoria/Attualità femminista: La scuola azienda/collegamento con una compagna da Londra/DAVOS/Note di politica trans, ovvero l’importanza di avere delle priorità”

 

“La prima scelta che il capitale fa è di dare o di non dare comunicazione di un evento. E, in questo, ci agevola il compito perché ci dice dove quell’evento è collocato. Successivamente  avvelena l’informazione con la simulazione e la manipolazione. Ed ancora, con la selezione di tutti i testi e con la conseguente rimozione di quelli che entrano in contraddizione antagonistica con l’ideologia ufficiale.

E’ la trasformazione dei fatti accompagnata dalla selezione, per cui certi elementi vengono tradotti in testo ed altri, tramite la voluta dimenticanza, dichiarati inesistenti.”

 

.L’usura del tempo non c’entra con il fatto che una catena di eventi venga ad essere rimossa dalla memoria collettiva. La causa i i processi di dimenticanza e di oblio sono voluti e perseguiti attraverso la falsificazione della memoria storica,la produzione di ricordi sostitutivi, di codificazioni fuorvianti e fraudolente…In luogo del non far sapere si sceglie di far sapere ciò che legittima il potere e,pertanto, funziona come strategia di controllo sociale” ATTI/Memoria collettiva, Memoria femminista 2012 .

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La Parentesi del 27/1/2016 "Davos"

Data di trasmissione
Durata 7m 10s
“Davos”

 

Immagine rimossa. Il neoliberismo, fase attuale dell’autoespansione del capitale sottopone la vita alla guerra e quest’ultima impone a tutti una conseguente violenza esercitata e/o subita.

Disoccupazione, povertà, conflitti etnici e religiosi costituiscono la trama dello sviluppo di questo modello. I ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre di più e sempre più poveri.

Sono stati rimossi con scelta voluta i grandi dispositivi della sanità pubblica, del pensionamento universale, dell’assistenza generalizzata ai deboli della società.

In Europa, perché in Usa sono stati già realizzati da tempo, questi processi, promossi dalla socialdemocrazia, risultano particolarmente veloci e precipitosi.

Il comando capitalista in questa stagione dalla fabbrica si è esteso all’intera società. La modalità dello sfruttamento si espande, instaura tecniche di appropriazione capitalistica nuove e, per la stragrande maggioranza delle persone, insostenibili. La sussunzione della società nel capitale oggi allarga indefinitamente lo sfruttamento sull’intero terreno sociale.

Militari, magistratura, media, polizia, Ong, sono messi al servizio di una lotta scatenata per battere un nemico esterno ed uno interno, per riorganizzare una gerarchia dei rapporti internazionali e ridefinire i rapporti di classe all’interno dei singoli paesi. Questo significa distruggere popolazioni, respingerle indietro di secoli, gettare nella disperazione le popolazioni del terzo mondo e i cittadini/e dei paesi occidentali.

Oggi assistiamo alla teoria e alla pratica che la guerra è la prima giustificazione dell’ordine e della sicurezza. La repressione da essere una situazione congiunturale oggi è un dispositivo nei confronti di quelli che vengono espulsi dai benefici del contratto sociale.

Le guerre neocoloniali ammantate da guerre umanitarie sono un passaggio voluto per ridefinire i rapporti di forza internazionali.

Per questo ogni anno a Davos cittadina svizzera del Canton Grigioni, si riuniscono i grandi interessi occidentali per fissare le linee guida dei processi di sfruttamento sulla realtà planetaria. L’incontro è promosso dal Forum economico mondiale, WEF ed è conosciuto proprio come Forum di Davos, associazione, bontà sua, senza fini di lucro, con sede a Cologny, vicino a Ginevra. E’ finanziata dalle circa mille imprese associate, in genere multinazionali con fatturato superiore ai 5 miliardi di euro. Le imprese associate sono quasi sempre leader, nel proprio settore o Paese, e hanno un ruolo chiave nell’orientarne gli sviluppi futuri. La fondazione opera anche come Think Tank e pubblica numerosi documenti di approfondimento, sotto forma di report e analisi di scenario sui temi della crescita economica, della finanza, della sostenibilità ambientale, dello sviluppo sociale e della salute.  La struttura organizza alla fine di gennaio, un incontro tra esponenti di primo piano della politica e dell’economia internazionale con intellettuali e giornalisti selezionati, per discutere delle questioni mondiali che, per i loro interessi, vengono ritenute più importanti. L’incontro è a inviti e si tiene a porte chiuse. In occasione del meeting, i vertici delle imprese associate alla fondazione incontrano una ristretta platea di leader politici, di organizzazioni non governative, sempre utili, di esponenti della comunità scientifica, di leader religiosi e di giornalisti. Il programma dei 5 giorni dell’evento riguarda temi chiave del dibattito mondiale dettati dal punto di vista occidentale e in particolare statunitense.  L’evento, quindi, organizzato dalle grandi potenze finanziarie serve per confrontarsi con i poteri statali e, soprattutto, con il potere imperiale degli Stati Uniti. Davos rappresenta bene la struttura attuale del potere globale gerarchizzato: all’apice ci sono gli Usa e in un rapporto di compartecipazione, ma sempre subalterno, le potenze multinazionali e i governi dei paesi capitalistici avanzati.

Davos è la cartina di tornasole che ci dice qual è la composizione imperialista, come sono articolati i diversi livelli di controllo all’interno del sistema, di esercizio della guerra, e della repressione all’esterno e all’interno contro i popoli del terzo mondo e i cittadini dei paesi occidentali. Questo è il vero ordine del giorno in quella riunione.

Davos è una rappresentazione teatrale del neoliberismo. Il capitale diviene sempre più parassitario e per questo deve ricorrere alla guerra preventiva e si è dato strumenti adeguati trasformando gli eserciti in strutture di controllo per poter intervenire in tutti gli spazi del mondo. E’ stata costruita una rete di dispositivi polizieschi e militari che si integrano e si sostituiscono vicendevolmente. E’ un reticolato di presenze nel territorio il cui principale obiettivo è sconfiggere l’esigenza di libertà, coadiuvato da organizzazioni non governative, banche che fingono di essere benefattrici, media che fingono di raccontare la cronaca.

E’ un salto di qualità nell’organizzazione capillare della violenza legittima.

Perciò i tentativi di sottrarsi a questo monopolio come quelli portati avanti in Brasile, in Argentina, in Bolivia, in Ecuador, in Uruguay, da Kirchner o da Correa, da Chavez prima e da Maduro dopo, o da Mujica o da Rousseff sono il male assoluto nel mirino dell’impero e sottoposti ad attacchi concentrici perché devono essere rimossi con le buone o con le cattive. Ma non credano i benpensanti occidentali di ricavare un qualche ritorno dalle politiche neocoloniali così come è successo nella stagione coloniale.

I territori dei paesi a capitalismo avanzato sono divenuti un luogo dove non si riesce più a distinguere azioni di polizia e guerra a bassa intensità e le città saranno pattugliate come le città della Cisgiordania.

“Nel lungo periodo, l’organizzazione si potrebbe adattare a seconda della situazione. Si potrebbero affrontare sfide quali la guerra nucleare” Questo è quanto ha dichiarato pochi giorni fa, nell’incontro a Davos di quest’anno, l’ineffabile segretario della Nato, Stoltenberg.

I popoli del terzo mondo sono messi al lavoro come schiavi e le popolazioni occidentali sono lasciate senza lavoro o con lavori precari o di risulta. Il loro dramma attuale è di non prendere coscienza del perché la povertà stia diventando una dimensione comune e l’ostentazione della ricchezza sia diventata la sola morale.

Trasmissione del 20/1/2016 "Riflessioni femministe su<L'utero in affitto>"

Data di trasmissione
Durata 1h 13m 23s
Puntata del 20/1/2016 “Riflessioni femministe sull'<Utero in Affitto>”

” Mary Crow Dog/Donna Lakota/L’Utero in Affitto/I nuovi mostri/Femminismo materialista

 

Dice un proverbio cheyenne :una nazione non è conquistata finché i cuori delle sue donne resistono”.

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La Parentesi del 20/1/2016 "I nuovi mostri"

Data di trasmissione
Durata 4m 28s
“I nuovi mostri”

 

 

Immagine rimossa. Una volta c’era la “macchietta” del pensionato che, mentre aspettava l’autobus o era in fila alla posta, non faceva altro che borbottare contro “le donne, il tempo ed il governo” come diceva De Andrè. E, magari, suscitava anche simpatia perché ricordava il vecchietto masticatabacco dei film western.

Oggi è cambiato ed è stato sostituito da nuovi figuri tutt’altro che simpatici: quello che aggredisce i disperati/e, spesso Rom, che rovistano nelle immondizie, quello che chiama subito i vigili urbani quando qualcuno scrive sui muri o attacca un manifesto, quello che insulta chi chiede l’elemosina o lava i vetri delle macchine ai semafori, quello che ha il cellulare sempre pronto per chiamare i carabinieri e fare la spia quando qualcuno schiamazza o alza la voce. Per non parlare di quelli/e che guardano con sospetto chi veste in modo dimesso e vorrebbero cacciare dai mezzi pubblici chi, secondo loro, puzza. Poi ci sono quelli/e che segnalano subito chi non paga il biglietto e chi, magari, occupa una casa. Come se fosse un piacere lavare i vetri agli angoli delle strade, rovistare nelle immondizie o non avere un tetto sulla testa.

E’ una cultura della delazione, ma quelli che l’hanno fatta propria sono gli stessi, ed è inutile che si nascondano dietro un ditino, che avrebbero segnalato chi era in sospetto d’essere ebreo o partigiano o semplicemente aveva avuto la leggerezza di esprimere critiche al regime.

Anche ora, nel silenzio più totale vengono rastrellati i migranti e le migranti, vengono rinchiusi nei Cie e rispediti nell’inferno da cui sono scappati. Gli zelanti uomini in divisa applicano la legge, la maggioranza tace e fa finta di non sapere e, comunque, pensa che se c’è una legge vuol dire che è giusto così. Per loro la legge è un totem. Senza rendersi conto che per una volta che sono martello, altre mille saranno incudine perché la marea montante dello sdegno cittadino verrà incanalata a seconda delle necessità su una o su un’altra categoria sociale: ora gli immigrati che portano via il lavoro o i dipendenti pubblici assenteisti e rubastipendio, poi i professionisti tutti evasori fiscali e poi i commercianti tutti ladri   e la volta ancora dopo toccherà agli abitanti delle periferie tutti delinquenti.

In pratica sono nati nuovi mostri, frutto di un’ingegneria politica che ha saldato una cultura intimamente fascista, profondamente razzista e classista con il politicamente corretto e che ha sdoganato la parte peggiore dell’essere umano fornendo l’alibi politico attraverso parole come decoro urbano, tutela dell’ambiente, legalità, sicurezza.

Gruppi di volontari puliscono i muri della città o i parchi o i giardini.

Comitati di quartiere si riuniscono contro gli schiamazzi della vita notturna, i cani che sporcano, le macchine in doppia fila, ma restano indifferenti davanti ai militari con il mitra ad ogni angolo della metropolitana e in ogni piazza della città.

Persone che non riescono a pagare la bolletta della luce o del gas, invece di prendersela con chi le ha ridotte così, protestano per il nero che vende occhiali senza permesso e, soprattutto, o dea ! senza scontrino, all’angolo delle strade.

Gente che si fa rapinare quotidianamente dallo Stato, inorridisce per il parcheggiatore abusivo e va a chiamare il vigile, ma non si scandalizza per i parcheggi a pagamento, le ZTL che impediscono di entrare in centro, i divieti di accesso nella città degli dei e non percepisce affatto che tutto quello che viene definito dal denaro è un provvedimento classista.

Si è completamente persa la cognizione di che cosa sia lo Stato, momento organizzativo di chi detiene il potere, e le oppresse e gli oppressi sono stati condotti a lavorare attivamente per chi attivamente li reprime, li controlla e li sfrutta.

E’ fondamentale trovare il modo di uscire da questa cultura politicamente corretta e fascista, nel senso più preciso e politico del termine, da questa gabbia comportamentale che ha inculcato nella mente delle persone i concetti di legalità e sicurezza, veri e propri strumenti di asservimento volontario.

In questo passaggio epocale in cui la borghesia transnazionale si pone come nuova aristocrazia la legalità assume i connotati di un nuovo “ipse dixit”.

 

Trasmissione del 13/1/2016 "Riflessioni femministe su Colonia" e "Noguerra NoNato"

Data di trasmissione
Durata 1h 1m 17s
Puntata del 13/1/2016 “Riflessioni femministe su Colonia”

 

 

Rosa Luxemburg/Riflessioni femministe su Colonia/ Mala tempora currunt/Ricominciamo da tre “Perché il femminismo deve essere contro la  guerra del capitale e contro la Nato”

 

“L’imperialismo è al tempo stesso un metodo storico per prolungare i giorni del capitale
ed il mezzo il più sicuro e più veloce di mettervi obiettivamente un termine.
Ciò non significa che il punto finale abbia bisogno di essere raggiunto alla lettera.
La sola tendenza verso questo scopo dell’evoluzione capitalista si manifesta
già attraverso dei fenomeni che fanno della fase finale del capitalismo un periodo di catastrofi”

 

L’Accumulazione del capitale, III, 31: “Il protezionismo e l’accumulazione”.

 

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da http://mojumanuli.noblogs.org/

La Parentesi del 13/1/2016 "Mala tempora currunt"

Data di trasmissione
Durata 4m 14s
 

“Mala tempora currunt”    Immagine rimossa.

Continuano le trattative tra gli Stati Uniti e l’Unione Europea per il TTIP. La prima considerazione che balza agli occhi è che  continuano ad essere segrete. Un trattato che avrà ripercussioni importanti nella vita di milioni di persone viene condotto segretamente. Alla faccia di quelli/e che si riempiono la bocca di parole come democrazia, rappresentatività, partecipazione.

Non è necessario ricordare qui cos’è il TTIP: un attacco a tutto campo alla sovranità dei singoli paesi che minerà le possibilità di sopravvivenza di interi settori economici e industriali nonché un attacco a tutto campo alle conquiste alimentari, sociali, culturali ottenute nei singoli Stati europei. Il TTIP è una vera e propria Nato economica.

La Nato, di fatto, detta la linea politica estera agli Stati aderenti all’Unione Europea. Il TTIP lo farà anche nel campo economico.

Non è sufficiente dire che le lobby delle multinazionali anglo americane fanno pressione, è necessario dire che le stesse dettano l’agenda. Questo non è una novità negli USA dove le multinazionali dirigono la politica in maniera compiuta dai tempi dell’assassinio di J.F.Kennedy. Già Eisenhower, che pure veniva dall’esercito, nel discorso di commiato alla fine del suo mandato presidenziale, denunciò l’invadenza e qualche cosa di più dell’apparato militare industriale. L’espansione e la sempre maggior forza politico-economica che questo settore avrebbe raggiunto nei paesi capitalisti è stata analizzata e raccontata con estrema chiarezza da Rosa Luxemburg.

L’apparato militare industriale statunitense detta ora la politica estera dell’UE tramite il grimaldello della NATO . E si cerca di estendere questa ingerenza diretta  in tutti i campi tramite il cavallo di troia del TTIP. Di fronte all’importanza e alle devastanti conseguenze di questa operazione, colpisce il silenzio e la disattenzione in Italia rispetto al tema, non solo da parte dei media ma anche del movimento antagonista. Certo, i primi sono schierati, interessati e parte integrante del sistema, ma la  disattenzione del movimento è preoccupante .

L’unico paese dove il dibattito è forte e ci sono state imponenti manifestazioni di piazza contro il TTIP è la Germania dove il governo, che è espressione degli interessi dell’industria manifatturiera ed esportatrice, mettendo al primo posto gli interessi di quest’ultima con evidenti riflessi occupazionali, mostra poca propensione all’adesione al TTIP. Perciò balza agli occhi che l’SPD nel suo ultimo congresso, nel dicembre del 2015 dei tanti temi che poteva e avrebbe dovuto affrontare, ha trovato il tempo di discutere e di sancire formalmente per iscritto la sua disponibilità all’ adesione al TTIP.

Qualcuno potrebbe definire questa scelta improvvida dato che va contro gli interessi della Germania e non tiene conto degli umori e delle scelte dei tedeschi. Ma il gruppo dirigente dell’SPD queste cose le sa: Evidentemente ha puntato sull’influenza a tutto campo degli Stati Uniti e spera di eliminare Angela Merkel e di andare al potere da solo con una soluzione all’italiana.

Mala tempora currunt. E’ necessario mettere all’ordine del giorno lo smascheramento e la sconfitta politica della socialdemocrazia che naturalizza nei paesi europei il neoliberismo che vuol dire realizzare compiutamente in Europa la società americana. E passaggio fondamentale è l’uscita dell’Italia dalla Nato

 

Trasmissione del 2/12/2015 "La costruzione della nonnità/genere e classe"

Data di trasmissione
Durata 58m 53s

Questa è l’ultima puntata de “I Nomi delle Cose” del 2015, per problemi organizzativi riprenderemo le trasmissioni mercoledì 13 gennaio!

“I Nomi delle Cose” /Puntata del 2/12/2015 “La costruzione della nonnità/genere e classe”

http://coordinamenta.noblogs.org/post/2015/12/04/podcast-della-trasmissione-del-2122015/

 

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Das Stufenalter der Frau , Le età della donna, Cromolitografia, fine sec. XIX

”  Si può andare, venire, discorrere, scrivere, partire, ritornare, senza dare troppi conti a nessuno; si può amministrare la propriasostanza, grande o piccola, come si vuole(..) Maritarsi è bene, ma è anche male; non maritarsi, è male, ma è anche bene.”

 

 

” Welfare fai da te/ la costruzione della nonnità/ genere e classeChiacchierata con Elena De Marchi /Impero e aristocrazia/La trasmissione tra generazioni/incontro con le studentesse del Liceo Virgilio occupato”

Qui il libro di Elena De Marchi e Claudia Alemani http://coordinamenta.noblogs.org/post/2015/10/09/confronto-generazionale-e-lavoro-di-cura/

L’articolo “IN SERVIZIO PERMANENTE, Welfare  fai da te e cura familiare” di Elena De Marchi si trova su  Zapruder , Storie in movimento , Numero 38, appena uscito, dal titolo “Io sto bene io sto male”.

http://storieinmovimento.org/2015/11/11/trentottesimo-numero/

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