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femminismo

Trasmissione del 18/02/2015 "La morte nella società del Capitale"

Data di trasmissione
Durata 1h 0m 53s
Puntata del 18/02/2015

“ La morte nella società del Capitale”

” Profezia/La morte nella società del Capitale, Parte prima
/Forse ci siamo dimenticate…./ La morte nella società del Capitale” Parte seconda”

Immagine rimossa.

 

Materiali sulla trasmissione estratti da:

DIETRO IL PARAVENTO
“Aspetti sociali, psicodinamici e relazionali dell’assistenza ai morenti”
 di Antonella Bonucci

contatti: antobon06@libero.it

(…….)In passato, nella sua quasi totale impotenza, il medico svolgeva soprattutto il compito di nuntius mortis; ora assume la fisionomia di quello che può contrapporsi, a volte con successo, a una morte data fino ad allora per ineluttabile e che comincia a spostarsi , impercettibilmente forse, ma in modo continuo, sempre più in avanti; la malattia si sostituisce ad essa, iniziando quel lento mutamento che porterà il medico ad essere non un soccorritore, colui che allevia la sofferenza, ma lo strenuo oppositore della morte, costi quel che costi; contemporaneamente “… ha rinunciato al ruolo che fu per lungo tempo il suo, senza dubbio nel XVIII secolo. Nel XIX, parla solo se lo si interroga, e già con qualche riserva.” (Ariés, 1975).
Si fa strada e si manifesta (ma come abbiamo visto viene da lontano) la paura che vengano dichiarate morte persone che non lo sono affatto: è il primo segno, probabilmente, di quella scarsa fiducia che, a fronte di conquiste sempre più importanti, aprirà un solco tra i medici e tutti gli “altri”, unita a una paura ancestrale (forse una sorta di incredulità?), che si abbevera al “fiume dell’angoscia che trae origine dalla notte dei tempi ”. (Ziegler, 1975).
Agli antichi luoghi della morte (la casa, la chiesa, il cimitero) si affianca, lentamente, l’ospedale; alla famiglia, che proprio ora raggiunge il massimo della sua coesione e partecipazione, si affianca la classe medica, che man mano, ma inesorabilmente, la sostituirà negli ultimi istanti di vita dei suoi cari.
Il rituale stesso della morte comincia lentamente a cambiare intorno alla metà del secolo: al capezzale del moribondo non vanno e vengono più tutti i componenti della sua rete sociale, che si riducono via via alla famiglia, fino a limitarsi, nel secolo successivo, a pochi componenti della stessa. La figura del prete si ridimensiona; lungi dal voler rinunciare al suo secolare ruolo di amministratore della buona morte, comincia malvolentieri ad arretrare nei confronti del medico, e spesso viene chiamato al capezzale del morente quando ormai questi non è più in grado di rendersi conto della sua presenza. Non possiamo però certamente parlare di “scristianizzazione” della morte; piuttosto diremo che essa abbandona i toni terroristici per privilegiare quelli consolatori.
Il Romanticismo però, per certi versi, celebra la morte, se pure nei toni eroici e sentimentali che gli sono propri, anche arrivando a descrizioni particolareggiate e a rievocazioni o premonizioni che sfociano, per noi contemporanei, decisamente nel macabro. Essa inoltre, pur allontanandosi dall’ineluttabilità che le era stata propria nei secoli precedenti, acquista anche un carattere di possibilità individuale, di consapevole scelta. Nel secolo caratterizzato dalle grandi rivoluzioni borghesi e dal socialismo scientifico, si afferma una visione che, ponendo come irrinunciabile l’affermazione dei propri diritti, pone l’uomo di fronte al primato di una vita degna di essere vissuta, della possibilità in altre parole di conquistare in terra quel paradiso che sempre era precedentemente prefigurato come premio successivo alla morte. Questa appare ora come possibilità, se pure non cercata e celebrata come in un certo romanticismo, per affrancarsi dalla schiavitù e dallo sfruttamento.
I vivi, o meglio coloro la cui morte è ancora presumibilmente lontana, cominciano a nascondere al moribondo il suo stato. Sia in ambito cattolico, che riformato, la veglia funebre si trasforma e, per così dire, si impoverisce: comincia ad essere non più tollerata quella commistione tra vita e morte che l’aveva caratterizzata; dicevamo che diminuiscono le visite, ma cambia anche l’abitudine di mangiare, di riunirsi, di celebrare in fondo la vita proprio in presenza della morte, affermandone la quotidianeità e la familiarità.
Prende piede l’abitudine di far soggiornare i morti negli obitori, sancita da leggi che si oppongono alla forte resistenza del pensare comune e si allunga l’intervallo di tempo tra morte e sepoltura: “… la famiglia viene progressivamente espropriata del suo controllo sul corpo morto ” (Vovelle, 1983). Il cadavere, fino ad alra seppellito avvolto in un sudario, viene ora sempre più spesso rinchiuso il prima possibile in una bara, per sottrarlo in fretta alla vista dei vivi. Il rituale che nei secoli precedenti aveva privilegiato gli ultimi momenti di vita riservando poco tempo alle esequie (con l’eccezione ovviamente dei ricchi e dei potenti, che anche in questo caso davano un segnale della loro forza) si capovolge, tralasciando l’attenzione verso l’agonia a favore di regole, scritte o meno, sempre più minuziose nei confronti delle cerimonie funebri.
E il morente, che per secoli era stato l’incontrastato protagonista della propria morte, comincia a cedere la scena alla sua famiglia e al medico; inizia un processo che continuerà impetuoso per tutto il secolo scorso e porterà alla cancellazione della morte nella coscienza dei vivi; essa, ovviamente è pur sempre un’amara realtà, ma l’uomo comincia a scegliere di vivere come se non ci fosse: “… il morire è diventato in Occidente un fatto osceno ”. (Urbain, 1980).
LA MORTE IN OSPEDALE

L’allungarsi della speranza di vita e la convinzione che, almeno per noi stessi, una morte violenta sia solo una remota possibilità, ci indurrebbero a ritenere il morire un evento naturale e non un’anticipata aggressione, ma l’atteggiamento medico e sociale nei confronti della malattia testimonia, a mio parere, esattamente il contrario, ascrivendo anch’essa ad un livello di violenza che, con gli opportuni accorgimenti, è possibile, perlomeno in una società come la nostra, evitare. E se pur sono innegabili e tantomeno irrinunciabili le conquiste mediche che ci conducono a sconfiggere infezioni che solo un secolo fa avrebbero portato alla morte non solo i più deboli, è evidente che questo ha comportato l’aumento della vita media insieme però anche a un aumento dell’agonia media, se così possiamo esprimerci, ovvero a un prolungarsi di situazioni di estrema sofferenza, fisica e morale (ma qual’è il confine?) in attesa di una morte comunque inevitabile, e che ha reso ingestibile da parte della famiglia il periodo, ormai sempre più lungo, che la precede.
Uno dei primi aspetti che questa situazione ha determinato è stato lo spostamento dell’agonia dalla casa all’ospedale…
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E in ospedale si muore, inoltre, anche per atto formale. Nella cosiddetta “Dichiarazione di Harvard” pubblicata il 5 agosto 1968 sul Journal of the American Medical Association, vengono ridefiniti, ad opera di un “Ad hoc Committee to examine the Definition, of Brain Death” i “criteri ormai superati della definizione della morte” a causa dell’onere che persone in condizioni disperate “rappresentano per le famiglie e gli ospedali” e per le “controversie quando si presenta il problema del prelievo di organi destinati al trapianto”. Non più evento naturale (cessazione della respirazione e del battito cardiaco) semplicemente constatati dal medico, ma valutazione di “segni” che, pur in presenza di respirazione e quindi attività cardiaca artificialmente indotte, ratificano lo status di cadavere per un corpo, tutto sommato, ancora a cuore battente. Ricordiamo del resto che pochi mesi prima, esattamente il 3 dicembre 1967, a Città del Capo il prof. Christian Barnard aveva effettuato il primo trapianto cardiaco.

La “pornografia della morte”

…. Un esempio lampante di come massicciamente la morte sia stata allontanata dalla nostra società è stato dato, negli anni ’60, dal sociologo inglese Geoffrey Gorer, che nel suo ormai classico lavoro, The Pornografy of Death (1963) ripercorre, anche sulla scorta di esperienze personali (la morte del padre, nel 1915, e del fratello nel 1932) il progressivo perdersi dei riti del lutto nella società borghese di cui fa parte. Alla fobia vittoriana nei confronti del sesso si sovrappone prima, e la rimpiazza poi, una pornografia della morte che tende a cancellarne ogni riferimento, fino a negare ai sopravvissuti anche il conforto della partecipazione sociale al loro dolore. Lo stesso Gorer racconta che in seguito alla morte del fratello, tenuto all’oscuro del suo cancro fino alla fine (nonostante fosse un medico), non fu allestita la veglia funebre nè fu esposta la salma. Per la preparazione del cadavere furono chiamate due ex infermiere che, al loro arrivo, chiesero: “Dov’è il malato?”, e dopo averlo sistemato esclamarono: “Il paziente ha un aspetto incantevole adesso”.
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Ci troviamo di fronte, sembra di poter dire, ad un’incapacità strisciante di celebrare, anche attraverso i riti funebri, la partecipazione al cordoglio e il lutto, quelle cerimonie che nei secoli hanno rappresentato un valido e collettivo antidoto alla paura della morte, o forse soltanto un modo di alleviare una convivenza obbligata: “… l’uomo è un animale che seppellisce i propri morti (e se agisce così è perché ha coscienza della fatalità della sua propria morte), che crede nell’efficacia dei miti di passaggio o d’immortalità e del rituale che ne deriva, che spera di sopravvivere nella memoria di coloro che venereranno la sua tomba… è il suo nulla che egli combatte avendo cura dei suoi morti” (Thomas, in Campione, 1996). Abbandonare questo cammino, scegliere di vivere come se la morte non esistesse ha sicuramente un prezzo, sociale e personale.

ALCUNE INTERPRETAZIONI

La scienza si separa dalla filosofia e anche la morte, come ogni evento, viene integrata nell’insieme dei fenomeni naturali che possono essere spiegati, ma nel corso dei secoli, lentamente, rimane avulsa da quel sistema ideale che aveva reso possibile la sua integrazione sociale.
Ziegler (1975), dal canto suo, coerentemente con la sua visione economico-politica, attribuisce la genesi dell’atteggiamento nei confronti della morte da parte della “società bottegaia capitalistica” alla mercificazione e reificazione dell’essere umano. I morti non producono e soprattutto non consumano; essi, insieme ai malati inguaribili, sono affidati a specialisti che sbrigano le necessarie formalità, manifestando anche in questo la capacità di trarre profitto dall’impensabile. E se non siamo certamente tutti uguali, nelle nostre democratiche società, più che mai ciò appare vero di fronte alla morte.
Accanto a ciò occorre anche considerare il profondo individualismo (“individualizzazione” come la definisce Elias) che caratterizza la vita e la coscienza dell’uomo moderno: “Nelle società avanzare gli uomini per lo più pensano a se stessi come a esseri indipendenti, a monadi senza finestre…” (Elias, 1982). Inevitabile quindi morire isolati , così come si è vissuto; nonostante si sia (forse superficialmente) convinti che la propria vita abbia senso all’interno delle relazioni, particolari e generali, con gli altri esseri umani, “… nel momento dell’autoriflessione… nelle società avanzate in genere prende il sopravvento il sentimento, largamente diffuso … che ognuno esista per sé stesso e del tutto indipendentemente da altri individui, dal mondo esterno” (ibid.).
Un ulteriore punto di vista, che ci sembra complementare comunque a quello di Ziegler, ritiene che nella nostra società, dove valori primari sono la bellezza, la giovinezza, il denaro, non ci sia posto per malattia e morte, che ci ricordano purtroppo come, nonostante trapianti, lifting e quant’altro, questo grande carnevale che la pubblicità e la televisione ci prospettano di continuo prima o poi dovrà finire.
E’ necessario quindi ricostruire un linguaggio, se non della morte, irriducibilmente individuale e fra l’altro impossibile da sperimentare in modo fruibile, quantomeno del morire, ovvero di “… quella parte della vita che conduce alla morte, che – diversamente dalla morte – può essere modificata, trasformata, con adeguati interventi e che presenta dinamiche e momenti quindi identificabili e descrivibili” (Moretti, 1985), senza peraltro rinunciare a quel “planetario di costruzioni simboliche e di pratiche rituali, adatte ad attutire la crudeltà dell’evento” (Di Mola, 1994). A questo rivolge il suo pensiero l’essere umano, continuando a sopportare privatamente quello che, per secoli, spesso aveva condiviso con i suoi simili: le sue paure, le sue angosce sono le stesse di sempre, ma amplificate dalla profonda solitudine che lo attende alla fine del percorso.
“Molti sono dunque i terrori che circondano la morte. Dobbiamo ancora scoprire ciò che gli uomini possono fare per garantire ai loro simili una fine tranquilla e pacifica; l’amicizia di coloro che sopravvivono, la sensazione che debbono avere i morenti di non essere d’ingombro fanno senz’altro parte di questo programma. La rimozione sociale, l’atmosfera di malessere che spesso oggigiorno circonda gli ultimi istanti di vita, non sono certamente d’aiuto per gli uomini. Forse dovremmo parlare con più franchezza della morte, smettendo di considerarla un mistero. La morte non cela alcun mistero, non apre alcuna porta: è la fine di una creatura umana. L’etica dell’homo clausus, dell’uomo che si sente solo, decadrà rapidamente se cesseremo di rimuovere la morte accettandola invece come parte integrante della vita. Se l’umanità scompare, tutto ciò che gli uomini hanno fatto, tutto ciò per cui hanno combattuto, tutti i loro sistemi e credenze, umane e sovrumane, non avranno più senso.” (Elias, 1982).
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ALCUNE INTERPRETAZIONI

… É necessario pertanto esprimere la depressione che comporta l’accettare la morte, non sentircene più perseguitati e vivere la possibilità di perdere ciò che amiamo come “rafforzamento delle nostre energie creative [per] essere in grado di convivere con il dolore di una perdita, che è equivalente alla morte stessa, per poter tentare di integrare la morte con la vita” (ibid.), l’oggetto cattivo con quello buono, grazie alla crescita individuale, che è in fondo anche un cammino verso la fine della vita.
Analoga per certi aspetti è la lettura che dà Fornari (in Campione, 1996) del passaggio da una scissione che proietta la morte fuori da sè (come nei popoli primitivi e nel bambino) riconducendola a un attacco nemico, cattivo, e la sua elaborazione depressiva, grazie all’intervento di processi cognitivi che, da accadimento esterno, l’hanno ricondotta a un evento naturale, che occorre accettare: “… i fatti cognitivi sono intervenuti nel far cambiare il nostro atteggiamento di fronte alla morte” grazie però alla simbolizzazione che permette di tenere al nostro interno un concetto negativo “ … per cui il fatto di morire può essere tenuto dentro solo … in quanto lo trasformo in pensiero … in significati verbali poiché [se così non fosse] lo espellerei” (ibid.).
Judd ci mette però in guardia rispetto a un’altra manifestazione della scissione: celebrare la bella morte, idealizzarla, misticizzarla, significa mettere in atto una difesa inconscia, ancora una volta disintegrante, in cui leggere un caparbio rifiuto “di quanto in essa è di effettiva perdita e distacco, e di tutta la sofferenza che abitualmente comporta”. (ibid.).

GUARIRE E CURARE

Troppo spesso, infatti, questi due aspetti dell’assistenza medica sono forzatamente separati, se non contrapposti, fino ad essere attribuiti a ruoli diversi, o reputati tali, ovvero quelli del medico e dell’infermiere: “Mentre si dice che la medicina mira a curare [to cure], l’impegno terapeutico o la finalità morale della professione di infermiera è identificato con il prendersi cura [to care]. La medicina e i medici, si dice, si concentrano spesso sulla cura dello stato di salute del paziente; la professione di infermiera, invece, è basata su un prendersi cura olistico…” E ancora, citando una rivista di infermieri: “La scienza e la tecnologia mediche si occupano della diagnosi e della cura delle malattie. Questo modello riduzionista… inevitabilmente seziona, frammenta e spersonalizza gli esseri umani… Il prendersi cura che fa parte del ruolo dell’infermiera, richiede che la totalità degli esseri umani sia preservata nella sua integrità” (Kuhse, 1997).
A questo concetto di cura come guarigione sono finalizzate tutte le disponibilità professionali e tecniche, che si rivelano però fortemente inadeguate rispetto alle particolarissime esigenze di un paziente che muore, privo di risorse e di speranze davanti a una medicina che forzatamente, convinta che questo sia l’atteggiamento migliore per lo stesso malato, continua a considerarlo solo un corpo con determinati sintomi, e non lo vede come una persona che sta attraversando la crisi più drammatica, perché definitiva, della sua intera esistenza.
Nella circostanza della malattia terminale infatti, in cui la cura medica, tradizionalmente intesa, non ha più senso nell’ottica di un ripristino delle condizioni di salute, il prendersi cura assume una valenza fondamentale, e non ha senso quindi negarlo o delegarlo tutt’al più ai volontari ma, come ormai hanno maturato in decenni di esperienza le realtà che si occupano dei morenti, è un impegno che va assunto nella sua interezza da un equipe multidisciplinare fortemente motivata, non solo in senso etico, ma soprattutto professionale.
DIRE O NON DIRE
Il medico attribuisce così alla propria difficoltà (culturale e personale) di confrontarsi con la morte, un carattere di universalità, e giustifica “la [propria] tradizionale reticenza … ad instaurare con il paziente, fin dall’inizio della malattia, un leale e trasparente processo informativo sulle sue condizioni di salute” (Cunietti et. al. in Di Mola, 1994) con l’argomentazione che questo potrebbe gettare il malato in uno stato confusionale o depressivo, implicante anche il “rischio di suicidio” (Bressi – Invernizzi, 1994).
Molti medici inoltre ritengono che l’ignoranza possa essere uno strumento terapeutico, contrapposta alla certezza (quantomeno quella, spesso sopravvalutata, che un’indagine può giustificare) che invece potrebbe eliminare la speranza dall’orizzonte del malato. Da questo punto di vita la comunicazione rappresenta per medici e pazienti, non un’informazione, ma una vera e propria sentenza o condanna, che grava pesantemente su ogni ulteriore possibilità di relazione, considerando anche che nel nostro contesto sociale tutto “sembra cospiri a tener fuori la malattia e il male, impedendone l’accesso nell’area delle relazioni … Se è il dire che crea i fatti, il tacere li può trattenere dall’essere reali” (ibid.).
Non è infrequente perciò che sia la famiglia ad essere informata delle condizioni del paziente e che su di essa quindi gravi la responsabilità di valutare quanto questi sia in condizione o meno di ricevere la notizia, oppure che il peso di una scelta in tal senso ricada di fatto sull’infermiere, per quanto non ufficialmente investito, se non altro perché interagisce col malato per molto più tempo del medico.

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Se è opportuno quindi tracciare delle coordinate di massima che possano, nella consapevolezza assoluta dell’individualità delle persone, essere un riferimento per l’operatore che comunica una diagnosi, è opportuno anche chiarire che certamente non si tratta di un compito qualsiasi, ma che la motivazione più spesso addotta, ossia proteggere il paziente, in realtà non è altro che il desiderio di proteggere se stessi dall’incapacità di intrattenere una relazione e soprattutto di contenerne l’inevitabile ritorno emotivo.
Occorre comunque fare attenzione a che questa necessità deontologica e fondamentalmente etica di informare correttamente il paziente non sia vista come un imperativo a comunicare, ad ogni costo, una diagnosi infausta. L’ascolto del paziente dovrebbe essere la linea guida di ogni intervento, beninteso non un ascolto che si limiti a una raccolta di informazioni, quanto una sensibilità che sappia cogliere la capacità di assorbire una notizia di questo genere e che soprattutto ne sappia rispettare tempi e modalità individuali.
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Nel tentativo di trovare una strada che sia intermedia e propositiva tra il coinvolgimento e il distacco, tra il guarire e il curare, l’operatore si trova costretto dall’elaborazione sociale a svolgere il ruolo di guardiano della morte, che “vigila una realtà scomoda affinché non emerga a mettere in discussione gli equilibri” (Morretta-Tommasi, 1995), ma contemporaneamente deve confrontarsi con un percorso che è parallelo a quello descritto nel paragrafo precedente.
Si attua così una collusione tra le paure del malato e quelle del curante, laddove la presunta incapacità del primo di esprimere la sua angoscia e di parlare della morte è speculare all’angoscia di chi lo circonda: la “congiura del silenzio” spesso non serve al morente, serve solo agli altri.
Questo tentativo di non coinvolgersi, di lasciare le emozioni fuori dal proprio lavoro ha però un prezzo; le regole classiche della medicina qui servono poco: Marie de Hennezel (1995) osserva che “ci si sfinisce meno… impegnandosi a fondo e imparando a ricaricarsi, che non proteggendosi dietro un atteggiamento difensivo… Fra il personale curante chi si difende di più è poi chi si lamenta di essere spossato”.
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Nella relazione d’aiuto che si delinea tra il morente e chi lo assiste l’impossibilità di confrontarsi con una necessità, la morte, che il mondo contemporaneo cerca affannosamente di respingere, impedisce lo strutturarsi di un rapporto creativo. L’operatore si ritrae davanti all’enormità di assumersi un carico che gli appare insostenibile, nell’equivoco, ancora una volta che l’altro esprima una richiesta di vita, attraverso una domanda che appare quindi “globale, infinita” (Ranci Ortigosa-Rotondo, 1996).
Gli operatori devono allora elaborare “un cambiamento di prospettiva… l’aiuto possibile non porterà al benessere e alla salute, ma è un aiuto a vivere il percorso verso la morte… significa vivere l’incertezza … mettere le proprie competenze tecniche e professionali da parte, ascoltare e contenere le proprie emozioni e quelle dell’altro, confrontarsi con la realtà della morte” (ibid.).

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A conclusione di questo paragrafo riportiamo le parole di una giovane infermiera anonima (citato in Ziegler, 1975) che si è trovata, per così dire, dall’altra parte della barricata, e quindi forse più consapevole dei suoi colleghi, dei loro vissuti e di quelli dei malati:
“Di che cosa avete paura? Sono io che sto morendo. Lo so, siete impacciate, non sapete che cosa dire, che cosa fare. Ma credetemi, se voi partecipaste alla mia morte non commettereste un errore. Riconoscete per un momento che vi importa… restate, non andatevene, aspettate… Per voi la morte fa parte della routine, per me è una cosa nuova e unica… Ho tante cose da dire. Non ci vorrebbe molto tempo per parlare un poco con me… Se voleste ascoltarmi e condividere quel poco che mi resta di vita e se addirittura piangeste con me, mettereste forse in gioco la vostra integrità professionale? I rapporti da persona a persona non possono dunque esistere in un ospedale? Sarebbe talmente più facile morire… in un ospedale, circondata da amici…”
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La commissione ministeriale italiana per le cure palliative ha recepito, nel 1999, le indicazioni dell’O.M.S. (1990) ed ha emanato una definizione operativa delle cure palliative, secondo la quale esse:
– affermano la vita e considerano il morire come evento naturale
– non accelerano né ritardano la morte
– provvedono al sollievo del dolore e degli altri disturbi
– integrano gli aspetti psicologici e spirituali dell’assistenza
– aiutano i pazienti a vivere in maniera attiva fino alla morte
– sostengono la famiglia durante la malattia e durante il lutto.
Le cure palliative si caratterizzano inoltre per:
– la globalità dell’intervento terapeutico, avente per obiettivo la qualità della vita residua
– la valorizzazione delle risorse del malato e della sua famiglia
– la molteplicità delle figure professionali e non professionali coinvolte nel piano di cura
– il pieno rispetto dell’autonomia e dei valori della persona malata
– la forte integrazione e il pieno inserimento nella rete dei servizi sanitari e sociali
– l’intensità delle cure che devono essere in grado di dare risposte pronte ed efficaci al mutare dei bisogni del malato
– la continuità della cura fino all’ultimo istante
– la qualità delle prestazioni erogate.
Riteniamo che tutto questo non sia un progetto ambizioso o utopistico, ma piuttosto il minimo di assistenza che possiamo dare ai nostri simili e che speriamo sarà fornita a noi stessi. Tutte le persone che vi sono e vi saranno implicate (medici, infermieri, inservienti, assistenti spirituali) dovranno però essere fermamente motivate e adeguatamente formate. Non è un lavoro come un altro, e sicuramente la psicologia può e potrà dare un contributo fondamentale perché diventi, da eccezione, una norma,
“con un avvertimento. Alla psicologia spesso si chiede quello che non può dare: delle risposte valide in ogni situazione. La psicologia – o almeno la psicologia che più mi affascina – interroga, dialoga, va a rovistare ovunque, distoglie dal modo di pensare che ci è consueto… Inoltre la psiche non vive soltanto nel mondo interiore o negli studi degli psicoterapeuti. E’ anche altrove: nel quartiere, nell’ambiente, nel traffico, nei supermercati, nei cronicari… è avara di risposte e soprattutto interroga; può dare, deo concedente, una sensibilità diversa” (Spagnoli, 1995).
L’auspicio è quindi che questo patrimonio di esperienza e di sensibilità diventi una pratica comune in tutte le istituzioni sanitarie e che possa “stimolare gradualmente una trasformazione delle condizioni della morte nella nostra società”1.

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1 Circolare ministeriale relativa all’organizzazione delle cure e all’accompagnamento dei malati in fase terminale. Repubblica Francese – Ministero degli Affari Sociali – Direzione generale della Sanità – Parigi, 26 agosto 1986 (in Sebag-Lanoë, 1986).

http://coordinamenta.noblogs.org/post/2015/02/20/podcast-della-trasmissione-del-18022015/

La Parentesi di Elisabetta del 18/02/2015 " Forse ce ne siamo dimenticate...."

Data di trasmissione
“Forse ce ne siamo dimenticate…..”

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Quando, alcuni anni fa, è stato diffuso il rapporto Nato “Urban Operations in the Year 2020”, abbiamo sentito un brivido lungo la schiena e inquietudine serpeggiante si è impadronita di noi. Non che noi non sapessimo come si muove il neoliberismo, la violenza che mette e sa mettere in atto, la sua completa mancanza di scrupoli condotto dall’unica idea guida del profitto, però quando abbiamo letto le parole con cui il Rapporto spiegava quello che sarebbe successo di lì al 2020 e come il potere socio-economico-politico si sarebbe mosso, ci siamo sentite spiazzate.

L’Operazione Terrestre o Operazione Urbana (UO-2020) all’orizzonte dell’anno 2020 esaminava la natura probabile dei campi di battaglia, i tipi di forze terrestri le loro caratteristiche e capacità.

iIl “Rapporto Urban Operations in the Year 2020” era redatto dalla RTO (Studies Analysis and Simulation Panel Group, SAS-030) :
La RTO, l’Organizzazione per la Ricerca e la Tecnologia della NATO è il centro di convergenza delle attività di ricerche/tecnologiche (R&T) per la difesa in seno alla NATO.

Riportiamo virgolettato dal testo: «Lo spazio di battaglia dell’anno 2020 sarà variabile in densità, non-lineare e più disperso. Sarà di natura cellulare, multidirezionale e sempre più determinato da elementi aerei e spaziali che si trovano al disopra del campo di battaglia. L’ambiente urbano sarà l’ambiente di conflitto più difficile, ma allo stesso tempo il più probabile». Questo dice e, in un contesto così delineato, si sottolinea la centralità di una razionalizzazione dell’interoperabilità delle forze NATO, dato anche l’allargamento seguìto al crollo del Patto di Varsavia, e, in particolare, da un punto di vista strettamente operativo, si caldeggia il dominio sull’informazione, una maggiore capacità tecnologico-militare e una ottimizzazione della logistica.

Alcune branche tecnologiche sono considerate d’importanza cruciale ed elenca, testualmente, «……le tecnologie elettriche ad alta potenza, le armi ad energia diretta, le tecnologie informatiche, le tecnologie delle telecomunicazioni, le tecnologie per la guerra elettronica e dell’informazione, i dispositivi elettronici, la biotecnologia, le tecnologie delle strutture e dei materiali, i fattori umani e le interfacce uomo-macchina, le tecnologie d’attacco di precisione, l’automatizzazione e la robotica».
L’interesse degli esperti NATO verso gli scenari urbani non è affatto casuale, è messa in preventivo la rivolta nei paesi occidentali e dato che le aree metropolitane continuano a crescere senza posa e a catalizzare la conflittualità sociale e politica, i contingenti militari impegnati nelle missioni NATO si trovano sempre più spesso a dover operare in ambienti urbani dove vengono a cadere gli elementi tattico-strategici che erano tipici dei grandi conflitti bellici del Novecento. Inoltre, la complessità “umana” e sociale degli scenari urbani, nell’ottica di una salvaguardia spettacolare di quelli che sono i miti democratici fondativi di un organismo come la NATO, aumenta la problematicità degli interventi e rende necessaria una versatilità tattica contro i punti critici del “nemico”.

Quindi, sapevano e sanno tutto…..cosa faremo… come ci muoveremo… come proveremo a ribellarci… e questo prima ancora della nostra ribellione…….il brivido si trasforma in una sensazione di inadeguatezza e di impotenza. Dovremmo essere noi a pensare per prime/i, dovremmo essere noi a inventare  sistemi di lotta.

Lo stesso brivido lo avevamo sentito quando nel ‘99 le truppe Nato avevano attaccato la Jugoslavia, bombardato le fabbriche di Belgrado e l’ambasciata cinese (per vedere l’effetto che fa?), quando il governo D’Alema aveva trascinato l’Italia in una guerra senza l’ombrello dell’Onu e senza avallo del Parlamento. La guerra era lì, di nuovo in Europa, al di là di uno straccio di mare.

Era la nuova legittimazione della Nato. Concepita in funzione anti patto di Varsavia, una volta sciolto questo, non avrebbe avuto più motivo di esistere. L’aggressione alla Jugoslavia ha fornito agli Stati Uniti l’occasione per avviare il nuovo concetto strategico della Nato, quello di esercito di aggressione al servizio dell’imperialismo statunitense. per rovesciare governi asimmetrici ai suoi interessi e come polizia militare per reprimere le rivolte popolari nel cuore stesso dei paesi occidentali.. Non si tratta più di affrontare direttamente il “nemico”, ma di modellare le condizioni per migliorare e rendere più efficace il proprio ingaggio militare tattico.

E qui intervengono le cinque fasi di gestione militare delle operazioni urbane, ovvero l’USECT:

“Understand”/Conoscenza dell’ambiente/ saper individuare e valutare le infrastrutture fisiche principali, le specificità sociali politiche e culturali della popolazione, le modalità di circolazione e di controllo locale delle informazioni, la possibilità di creare o sviluppare forze “collaborazioniste”…;

“Shape”/Modellamento/ capacità di creare enclavi sicure per la popolazione civile e/o di isolare le forze nemiche anche inibendo le loro potenzialità “culturali” e comunicative nei confronti dei civili…;

“Engage”/Ingaggio militare spaziare da operazioni di combattimento su vasta scala a interventi umanitari nei confronti dei civili e che si pone come fine il raggiungimento degli obiettivi tattico-strategici prefissati a monte dell’azione….;

“Consolidate”/Consolidamento/) consolidamento delle posizioni conquistate e progressiva disorganizzazione dell’avversario, soprattutto grazie all’instaurazione di poteri locali “amici” e al controllo sui piani di ricostruzione….;

“Transition” /Transizione/ riconsegna dei meccanismi di controllo dell’area urbana alle autorità locali con progressivo sganciamento del contingente militare impiegato.

Forse abbiamo dimenticato tutto questo? Forse quello che sta succedendo in Ucraina non ci fa correre i brividi lungo la schiena? La Siria e l’Ucraina, passando per l’Iraq e la Libia, sono gli ultimi tasselli. Da qui, anche, la cooptazione nella Nato di paesi dell’Est europeo.

Questo è il senso del ruolo della Nato che a partire dalla Jugoslavia ha destabilizzato interi paesi e aree geografiche, questo è il senso dell’apparizione dei Talebani, dell’Isis e di tutta la pletora degli integralismi musulmani, pagati, equipaggiati ed addestrati dagli Stati Uniti direttamente o tramite gli stati vassalli.. Qatar.. Arabia Saudita… Bahrain, questo è senso del rovesciamento di Saddam Hussein e della sua impiccagione, questo è il senso dell’aggressione alla Libia e del linciaggio di Gheddafi, questo e non altro è il senso dell’aggressione alla Siria e del colpo di stato in Ucraina.

La Nato oggi si propone come polizia internazionale rompendo la divisione tradizionale tra esercito e polizia, trasformando intere aree geografiche in luoghi di detenzione a cielo aperto, balcanizzando interi ambiti geografici con la nascita di Stati da trasformare in basi militari Usa, crocevia di ogni traffico illecito sul modello del Kossovo.

La Nato non è più un problema solo di chi si pone in maniera antagonista, non è più un problema esclusivamente politico e ideologico, è motivo di preoccupazione per tutti/e quelli/e che pensano che diritti civili, diritto internazionale e autodeterminazione dei popoli non siano solo parole vuote di propaganda.

Per questo l’uscita dell’Italia dalla Nato diventa tema centrale su cui mobilitare e riunire tutte le forze che rifiutano il modello neoliberista, che sperano in una politica internazionale pluralista sottratta al monopolio di un solo paese e che ricercano autenticamente scenari di pace.

Uscire dalla Nato, chiudere le basi Nato in Italia, oggi è uno degli obiettivi politici più importanti che abbiamo di fronte. Le analisi politiche non possono essere solo esercizio teorico, devono tramutarsi in scelte precise.

http://coordinamenta.noblogs.org/post/2015/02/19/la-parentesi-di-elisab…

Trasmissione dell'11/02/2015 "Contro la guerra del Capitale, contro l'ordine patriarcale"

Data di trasmissione
Durata 54m 17s
Puntata dell’ 11/02/2015

“Contro la guerra del Capitale, contro l’ordine patriarcale”

Immagine rimossa.” Non ho voluto essere razione di carne per l’uomo né dare schiavi ai Cesari” Louise Michel/ < La  Coordinamenta verso l’8 marzo… >
NO ALLA GUERRA!
Contro la guerra del Capitale/Contro l’ordine patriarcale/ Fronte esterno e fronte interno/ Distruggi l’immagine mercificata dell’amor borghese”

 

 

La Parentesi di Elisabetta dell'11/02/2015 "Fronte esterno e fronte interno"

Data di trasmissione
Durata 6m
“Fronte esterno e fronte interno”

        C’è un fronte esterno in cui si esprime l’imperialismo e la pretesa egemonica dello Stato del capitale, gli Usa. Gli Stati Uniti, supportati da alleati e vassalli e con la Nato trasformata in esercito di aggressione, intendono piegare tutti gli stati asimmetrici ai loro interessi. Le guerre neocoloniali ….. la destabilizzazioni di stati sovrani come ora l’Ucraina… non sono altro che l’esplicitazione della pretesa di dominio USA. L’Ucraina è il terreno su cui piegare la Russia, altrimenti sarà la guerra con tutto ciò che un conflitto mondiale può esprimere ora. Merkel e Hollande si sono precipitati a cercare di convincere Putin perché l’Europa è ad altissimo rischio in caso di conflitto. Gli interessi dell’Europa non sono quelli degli Stati Uniti e ciò nonostante Francia e Germania non si potranno sottrarre. Le richieste che gli Usa pretendono che Putin rispetti, mi ricordano tanto un vecchio film del 1979 “Zulù Dawn” in cui gli inglesi in Sudafrica propongono al sovrano Zulù un accordo irricevibile per non scatenare il conflitto, ma lo scopo reale è quello di scatenarlo proprio attraverso l’improponibilità delle richieste

Immagine rimossa.

Smascherare i meccanismi reali è necessario, ma sono così sotto gli occhi di tutti che non ce n’è neppure bisogno. Il nostro no alla guerra imperialista è totale, assoluto e irrevocabile.

E c’è un fronte interno. Il neoliberismo ha scatenato la guerra alle cittadine e ai cittadini dei paesi occidentali, è una scelta ideologica a tutto campo. Sono stati chiusi tutti gli spazi di mediazione, l’impoverimento che in misura diversa colpisce tanti strati sociali ed è sempre più profondo non è il risultato non previsto di una presunta crisi economica ma è voluto e calcolato . Il controllo sociale è serrato, la militarizzazione dei territori e delle città mette in scena il rapporto Nato “Urban Operations 2020”. Chi si oppone come in Val di Susa, chi manifesta il proprio dissenso, chi trasgredisce viene immediatamente criminalizzata/o con pesanti condanne penali e amministrative che mirano a colpire la vita materiale dei singoli/e e a metterli nell’impossibilità di essere antagonisti/e, pena la perdita di tutto quello che hanno. Il neoliberismo è riuscito a mettere poveri contro poveri, così detti cittadini legittimi contro migranti, occupati contro disoccupati….Il PD e i suoi collaterali sono i principali artefici della naturalizzazione del neoliberismo qui da noi. Il riconoscimento del nemico e saper distinguere l’aggressore e l’aggredito sono passaggi fondamentali del fare politico.

Dovremmo cercare di ripensare le modalità di lotta e di coinvolgere tutti gli strati sociali attaccati dal neoliberismo.

Poi c’è un altro fronte esterno che riguarda il nostro specifico.

Dobbiamo fare i conti con la strumentalizzazione che il neoliberismo fa dei diritti umani, del razzismo, delle oppressioni e della violenza sulle donne e sulle diversità. La modalità di sottomissione e di gestione delle donne e delle diversità sessuali è cambiata, non avviene più attraverso la condanna sociale diretta, ma attraverso la colpevolizzazione attuata dal politicamente corretto, la tutela vittimizzante che prevede l’asservimento volontario. L’emancipazione è diventata uno strumento per inglobare le soggettività che in cambio della propria personale promozione, aderiscono e si fanno sponsor dei valori della società neoliberista e partecipano attivamente all’oppressione di tutte le altre e tutti gli altri. L’emancipazione delle donne e delle diversità sessuali e l’integrazione che si pretende dai/dalle migranti sono meccanismi simili: chi è disponibile viene inglobato/a, ma deve assumere i valori di questa società, deve mettersi una maschera bianca, diventare più realista del re e partecipare alla condanna e alla persecuzione di tutte quelli e tutte quelli indisponibili a questa soluzione.

Mai come in questo momento il genere è stato attraversato dalla classe e il tradimento di genere di quelle che si sono vendute al patriarcato assumendo i valori di questa società, va denunciato e smascherato.

Poi c’è un altro fronte interno. E’ la gabbia, anzi il sistema di gabbie, in cui ognuna di noi è chiusa, fatto di norme, stereotipi, convenzioni, ritualità, normalità….giudizi… condanna sociale…. spesso introiettate in maniera inconsapevole anche da noi stesse, contro cui combattiamo tutti i giorni cercando di prenderne consapevolezza, di renderle palesi , di metterle in discussione…ma anche questo non è facile. Spesso quando pensiamo di aver spezzato queste invisibili sbarre della gabbia che ci circonda, scopriamo che ce n’è un’altra, in un perverso gioco di scatole cinesi. E in tutto questo ci sono gioie e dolori…. un bicchiere di vino… carezze…sorrisi oppure rabbia… impotenza …insoddisfazione… insicurezza… sbagli…ci siamo noi, insomma, femministe e compagne, sempre.

 

 

 

 

Trasmissione del 4/02/2015 "Stupri di pace, stupri di guerra"

Data di trasmissione
Durata 1h 1m 32s
Puntata del 4/02/2015

"Stupri di pace, stupri di guerra"

Immagine rimossa.

“Dietro l’idea di <differenza> si cela la dominazione“ Colette Guillaumin/ Stupri di pace, stupri di guerra - prima parte/Giallo e rosso/ Stupri di pace, stupri di guerra -seconda parte/

 

http://coordinamenta.noblogs.org/post/2015/02/07/podcast-della-trasmissione-del-4022015-2/

La Parentesi di Elisabetta del 4/02/2015 "Giallo e rosso"

Data di trasmissione
Durata 5m 50s
“Giallo e rosso”

Immagine rimossa. Immagine rimossa.A Roma, la scalinata di Viale Glorioso che porta da Trastevere al Gianicolo era stata dipinte con i colori giallo e rosso per festeggiare la vittoria del secondo scudetto della Roma dell’ 82/83.

Questa presenza storica nel panorama della città è stata nei giorni scorso sbiancata su disposizione dell’ineffabile sindaco Marino che bisogna sempre ricordare che è dirigente del PD nonché noto medico trapiantista.

La vicenda va ben al di là del tema strettamente contingente perché denota una mentalità per cui non contano ideali, sogni, speranze e passioni, ma un presunto decoro.

Chiarito che dipingere una scalinata in giallo e rosso non deturpa niente, è necessaria una ulteriore e ben più importante precisazione: chi ha sollecitato l’iniziativa e chi materialmente l’ha eseguita ( non si nasconda dietro il ditino di formulazioni tanto accattivanti quanto fuorvianti) con la stessa logica avrebbe cancellato anche “W l’Italia” durante il Risorgimento e “Via i tedeschi” durante l’occupazione nazista di Roma.

E’ la stessa mentalità per cui un altro dirigente del Pd, ex segretario della CGIL, che ogni tanto viene riproposto, bontà sua, come leader di una fantomatica sinistra che dovrebbe rinascere, Cofferati, sanzionava le scritte fatte durante i cortei a Bologna perché violavano la proprietà privata dei palazzi e la bellezza della città e voleva far pagare ai manifestanti stessi, sempre bontà sua, e agli organizzatori le spese per la pulizia delle strade dopo la manifestazione.

Per non parlare dell’ex segretario del PD, ex direttore dell’Unità, Walter Veltroni, che quando era sindaco di Roma ha fatto affiggere manifesti per tutta la città, questi sì con spreco di denaro pubblico e deturpamento dell’ambiente urbano, che invitavano, con tanto di numero telefonico, la cittadinanza a denunciare chi osava scrivere sui muri. Non solo, ma aveva tentato di istituire un repertorio di chi acquistava bombolette spray e/o vernice nei negozi di ferramenta e affini con l’obbligo per i commercianti di tenere aggiornato l’elenco trasformandoli in poliziotti ausiliari.

In definitiva il culto della delazione da instillare nei cittadini/e, la mentalità poliziesca in cui imbrigliare commercianti e commessi/e.

Tutti questi avvenimenti, però, non sono fatti isolati, ma pezzi del mosaico che fa sì che il ministero degli interni e la polizia si costituiscano parte civile nei processi contro i manifestanti, magari, guarda caso, contro i/le Notav e fiocchino le condanne amministrative con relativi risarcimenti danni che sono veri e propri macigni contro ogni forma di dissenso. Vorrebbero farci protestare solo e soltanto con processioni dove chiedere, sapendo in anticipo che non otterremo nulla, una qualche grazia all’autorità costituita che ha sostituito dio , la madonna e i santi.

Un’ubriacatura , un’onnipotenza di potere che per potersi esercitare deve arrivare in ogni anfratto dei territori, delle città, dei quartieri e delle vite personali.

Noi siamo femministe e scriveremo sempre e comunque in ogni dove e su qualunque scalinata che non c’è proprietà privata, autorità civile, simbolo religioso rispetto a cui ci fermeremo con ossequioso rispetto. La nostra vita, la nostra libertà di scelta vale molto di più di qualsiasi muro pulito.

Non dimentichiamo che quando ci fu l’aggressione alla Jugoslavia, con la violazione della costituzione e senza l’approvazione del parlamento, apparvero a Roma tante scritte sui muri contro i bombardamenti delle fabbriche di Belgrado e contro D’Alema, allora presidente del consiglio, scritte che furono cancellate in una notte, sindaco Francesco Rutelli, dal solito ineffabile ufficio al decoro urbano.

Sindaci e servizio che sono stati, invece, latitanti quando, sempre a Roma, in via Angelo Emo apparve una scritta che diceva “partigiani vermi”. In quell’occasione hanno voltato gli occhi da un’altra parte: la proprietà privata e il decoro urbano non erano più così importanti.

La scritta è stata corretta da una mano sensibile che ha sostituito la parola vermi con “viva i partigiani” E nessuno l’ha vista, per fortuna, questa mano, perché altrimenti sarebbe incorsa nei rigori della legge.

Tutto questo è controllo sociale e fa parte di un unico progetto insieme ai lampioni intelligenti , alle ZTL, alle telecamere, alle cimici ambientali nei locali pubblici…..naturalmente veicolato con nobili motivazioni, tanto che girano per la città zelanti volontari che sotto l’egida del comune e a titolo gratuito, si prestano a cancellare scritte e staccare adesivi senza rendersi conto che sono parte di un sistema di repressione, che si prestano al controllo poliziesco del sociale, che fanno passare il principio che si possono far lavorare gratis le persone.

Il neoliberismo è un progetto scellerato e nazista e in Italia lo naturalizza il PD.

 

http://coordinamenta.noblogs.org/post/2015/02/05/la-parentesi-di-elisabetta-del-4022015/

Trasmissione del 28/01/2015 "Con cosa dobbiamo fare i conti..."

Data di trasmissione
Durata 55m 57s
Puntata del 28/01/2015

Con cosa dobbiamo fare i conti…..

Immagine rimossa. ” Ma quale memoria? / Attualità femminista “Con cosa dobbiamo fare i conti….”/  Borsa nera/  <Quell* che non hanno il genere, ma hanno la classe>La miseria del sovversivismo”

http://coordinamenta.noblogs.org/post/2015/01/30/podcast-della-trasmissione-del-28012015/

Quell* che non hanno il genere, ma hanno la classe" del 28/01/2015 "La miseria del sovversivismo"

Data di trasmissione

“La miseria del sovversivismo”

  Immagine rimossa.Si creano spesso polemiche su quali scelte siano rivoluzionarie, o quantomeno le più sovversive da farsi, e viceversa. Credo che questo dibattito non abbia niente di politicamente produttivo e abbia tutto di alienante per ogni parte coinvolta. La “sovversività” di qualcosa dipende dal contesto in cui quel qualcosa viene agito – e perciò si può attribuire ad un azione o un discorso un carattere sovversivo soltanto in una contigenza ben precisa, poiché questi sono un prodotto storico e culturale di determinante circostanze; queste stesse circostanze ne determinano il significato e, ne consegue, l’eventuale divergenza dallo stato di cose presenti e dall’egemonia culturale attuale.

Adottare uno sguardo intersezionale mette in luce l’inconsistenza di questa idea, dal momento che ne smaschera la pretesa di universalità. Come si può dire ad esempio cosa è sovversivo per una donna fare se già soltanto tenendo in considerazione la diversità tra donne bianche e quelle che non lo sono l’esperienza cambia profondamente e con lei anche l’ipotetico da farsi rivoluzionario? Per le bianche è stato sovversivo uscire dalle mura di casa e farsi strada nel sociale, nel pubblico; per le non bianche si può dire altrettanto, quando la schiavitù coloniale andava a colpirle proprio recidendo ogni tipo di legame familiare?

L’idea di una scelta sovversiva mi richiama alla mente, nella sua ingenua socialdemocraticità, un’altra idea, che è anche una pratica: quella del consumismo etico. Entrambe postulano prima di ogni cosa che sia possibile scegliere e che dal momento che è possibile scegliere, la scelta da fare è quella che viene posizionata come eticamente (e quindi politicamente) auspicabile.  Ci sono buoni motivi per dubitare che questa possibilità di scelta esista e ce ne sono altrettanti per sconfessare l’imprescindibilità di certe scelte, e cito quella che mi sembra più significativa: il rischio ahimè piuttosto concreto di una critica che continui a vertere inutilmente sul gesto individuale senza tenere minimamente conto né delle sue ragioni né del contesto in cui si svolge, perseguendo un ideale fascista di coerenza più vicino al martirio che alla lotta contro ogni forma di oppressione.

Il sovversivismo non è un -ismo per come lo concepiamo di solito, cioè  discriminazione, oppressione, ostilità aperta o sottile e molto altro che riguarda una specifica categoria di soggetti umani o non umani in maniera sistematica. È più un modo di pensare teso alla trasgressività compulsiva. Julia Serano in Whipping Girl lo definisce in maniera molto più precisa e contestuale all’ambiente femminista e queer: il sovversivismo è la pratica di esaltazione di certi generi, certe espressioni sessuali e certe identità semplicemente perché sono non convenzionali o non conformi. Serano dice:

In superficie, il sovversivismo dà l’apparenza di ospitare una serie apparentemente infinita di generi e sessualità, ma questo non è proprio il caso. Il sovversivismo ha confini molto specifici; ha un “altro”. Glorificando identità e le espressioni che sembrano sovvertire o sfocare i binari di genere, il sovversivismo crea automaticamente una categoria reciproca di persone le cui identità di genere e sessuali e le espressioni sono di default intrinsecamente conservatrici,  addirittura “egemoniche”, perché sono viste come rinforzo o naturalizzazione del sistema del binarismo di genere.

Julia Serano, nel suo libro, lo usa per descrivere come gli atteggiamenti sovversivisti si manifestino negli spazi queer e trans contemporanei, in cui i maschi / le identità transmaschili sono visti come più sovversivi rispetto a quelle femminili / transfemminili , e dove le identità e le espressioni (ad esempio le pratiche legate al drag, l’essere genderqueer) che sfocano il genere sono viste come più sovversive di quelle identità considerate binarie (ad esempio, donne e uomini transessuali).

Un altro esempio di questo atteggiamento è costituito dall’esclusione delle persone bisessuali, giustificata per l’appunto con argomentazioni risibili quali il rafforzamento del binarismo di genere, il quale deriva dall’errata considerazione che l’interpretazione letterale dell’etim0logia di una parola ne indica il significato odierno. Se bisessuale è un esercizio di binarismo per via del fatto che bi significa due, allora le lesbiche provengono dall’isola di Lesbo, percependo salari in cloruro di sodio. Bisessuale, proprio come omosessuale e transessuale, è una parola nata nel contesto medico e reclamata dalla comunità arcobaleno, perciò il suo binarismo vero o presunto non è affibbiabile alla c0munità, agli individui che ne fanno parte e all’identità romantico-sessuale che rappresenta, specie se una parte considerevole delle organizzazioni e comunità di persone bisessuali adottano una definizione di bisessualità che binarista non è. Se pensiamo altrimenti, dovremmo accusare coloro che si definiscono omosessuali di autopatologizzarsi. C’è un binarismo di genere, certo, ma  le accuse di rinforzo arrivano a una comunità piuttosto marginalizzata. È curioso che tutti si preoccupino di chi per davvero o per finta rafforza il binarismo senza preoccuparsi di chi, in primo luogo, l’ha edificato nei corpi e nelle esperienze. Questi censori sono funzionali alla guerra intracomunitaria, al mantenimento del mortifero dominio eterosessista, e sono considerevolmente responsabili dell’indisturbato proseguire delle ingiustizie inquadrate dalle agghiaccianti statistiche che riguardano le persone bisessuali. Ma ritorniamo a noi.

Quello del “rinforzo” è un mito, prodotto proprio dal binarismo di radicalità/non-radicalità, il sovversivismo appunto, attuato da soggettività che nel tentativo di abbattere gerarchie ne costruiscono altre, generando un’altra diversità, un nuovo “altro da sé”, che si suppone conservatore e per questo è considerato cattivo; inoltre, un grosso pericolo del sovversivismo risiede nel fatto che esso genera un processo di esclusione di ciò che sembra meno trasgressivo, atipico, non convenzionale e poi si rende complice della sussunzione neoliberista della gettonata controparte “sovversiva” commerciandola, perciò  depoliticizzandola e depotenziandola nelle sue già scarse potenzialità. Infine, esso si accompagna quasi inevitabilmente alla ricerca della purezza militante individuale, un mostro  che trasforma la solidarietà in competizione e l’azione diretta in mania di protagonismo, cuocendo ogni potenzialità di cambiamento sociale nel brodo di un più che disumano ultraindividualismo celolunghista. E questo è quanto mi basta per rifiutarlo con tutto me stesso.

 

http://coordinamenta.noblogs.org/post/2015/01/29/la-miseria-del-sovversivismo/

La Parentesi di Elisabetta del 28/01/2015 "Borsa nera"

Data di trasmissione
“Borsa nera”

Immagine rimossa.  Immagine rimossa.Durante gli anni della seconda guerra mondiale e in quelli immediatamente successivi si verificò il fenomeno della borsa nera. Nonostante le pene fossero molto severe divenne così importante che coinvolse molta parte della popolazione.

La minoranza che non ne ebbe bisogno apparteneva ad un ambito privilegiato. Anche in guerra e nei periodi di crisi c’è chi sta bene e magari accumula grandi ricchezze sul dolore e la miseria dei/delle più.

Nonostante le campagne di demonizzazione che propagandavano che la borsa nera era “contro la patria”, che sabotava lo sforzo bellico, che imboscava le derrate alimentari…. e nonostante la repressione vera e propria che arrivava fino alla fucilazione, il mercato clandestino finì in concomitanza con il miglioramento delle condizioni sociali degli anni ’50.

Questo conferma l’inconsistenza di chi pensa che il ricorrere a mezzi definiti illegali da parte dei più sia qualche cosa di leggibile antropologicamente, magari con risvolti razzisti, da far ricadere sulla testa di …migranti….Rom…meridionali…senza tetto…disadattati sociali a vario titolo insofferenti alle regole …..non a caso i più poveri e le più povere.

La maggior parte delle persone la notte vorrebbe dormire sonni tranquilli e se sceglie strade che questo sistema definisce illegali lo fa perché le sue condizioni economiche sono inaccettabili o perché il livello di sopruso ha raggiunto limiti di intollerabilità.

Perché abbiamo ricordato la borsa nera? Perché la gente dimentica, non fa tesoro di quello che racconta la storia e si fa coinvolgere dall’ideologia dominante.

La memoria non dovrebbe servire a oleografiche cerimonie sterili, funzionali a far dimenticare che le situazioni si ripetono seppure sotto altre vesti, ma ci dovrebbe ricordare che i protagonisti sono sempre gli stessi e la stesse.

La platea dei poveri in Italia, per limitare il discorso al nostro paese, si allarga e i poveri e le povere sono sempre più poveri/e e perciò possiamo ipotizzare verosimilmente che tanti, troppi dovranno trovare loro malgrado una soluzione per mangiare almeno una volta al giorno, per avere un tetto sopra la testa, per accedere alle cure, per comprare un paio di scarpe, un cappotto e mandare i figli e le figlie a scuola.

A nessuno/a piace vivere sotto i ponti o in una macchina, per chi ce l’ha, o andare a dormire negli ospedali pubblici o alla stazione o lavare i vetri ai semafori e magari avere un bambino/a a cui è negata la mensa scolastica perché non ha pagato la retta.

I gretti, gli indifferenti, i benpensanti non siano tanto sicuri della loro attuale condizione economica, l’esperienza greca e portoghese ce lo insegna, il modello americano si sta espandendo anche in Europa. Le statistiche ufficiali statunitensi, naturalmente false e taroccate al ribasso, ci dicono che 50 milioni di americani vivono in condizioni di povertà da paesi del terzo mondo.

Gettare nella pattumiera il neoliberismo, questo mostro tentacolare dalle mani adunche e insanguinate che lacera la condizione dei/delle più per il privilegio sgangherato e volgare di una minoranza, è una necessità. Chi ne veicola i valori per tornaconto personale non si creda assolto e assolta, dietro il belletto e il trucco delle belle e forbite parole c’è il volto della morte che semina lutti.

I ruoli sono sempre gli stessi, c’è chi rastrella, chi è attivo/a nelle espulsioni e detenzioni, chi picchia i manifestanti, chi licenzia, chi strumentalizza le oppressioni, chi fa finta di non vedere e si gira dall’altra parte…. E chi si espone, chi lotta, chi paga per questo un prezzo molto alto….

 

http://coordinamenta.noblogs.org/post/2015/01/29/la-parentesi-di-elisabetta-del-28012015/

Trasmissione del 21/01/2015 " Il femminismo è antifascista, altrimenti non è femminismo"

Data di trasmissione
Durata 55m 45s
Puntata del 21/01/2015

Il femminismo è antifascista, altrimenti non è femminismo!Immagine rimossa.

 Tutto quello che ho
è il mio sguardo miope e astigmatico sul mondo
(che, comunque, vede meglio di tanti altri)…./
 Femminismo e antifascismo
“…una femminista è antifascista per definizione, altrimenti non è femminista…” da <Un altro genere di comunicazione>/ La Parentesi di Elisabetta ” I poveri, le povere e i cammelli/ Follia securitaria, collegamento con una compagna NoTav

 

http://coordinamenta.noblogs.org/post/2015/01/23/podcast-della-trasmissione-del-21012015/